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La tradizionale stabilità dei prezzi dei diamanti, sapientemente gestita dal maggior operatore del settore, la sudafricana De Beers, ha subito un ulteriore tracollo con la crisi finanziaria del 2008.La stessa De Beers, che controlla circa il 40% del mercato di queste pietrepreziose, ha visto crollare l’utile netto del 99% a 3 mio di dollari nella prima metà del 2009. La società centellina la pubblicazione dei dati finanziari, essendo detenuta privatamente da tre azionisti: il colosso minerario Anglo American (45%), la famiglia Oppenheimer (40%) ed il Governo del Botswana (15%). È stato comunque reso noto che De Beers sta ottenendo dai suddetti azionisti un’iniezione di capitale, nelle proporzioni di cui sopra, pari ad un miliardo di dollari.Questo finanziamento, il secondo nell’arco degli ultimi dodici mesi, assume un carattere d’urgenza. La società è infatti a corto di liquidità, ed in marzo giungono a scadenza 1,5 miliardi di dollari di finanziamenti bancari. La rinegoziazione di questi ultimi si annuncia problematica, anche perché il mercato dei diamanti, nonostante la leggera ripresa degli ultimi mesi, non ha seguito l’euforico ritorno dei metalli preziosi.A queste condizioni De Beers non è in grado di aumentare le giacenze in attesa di tempi migliori. Neppure può prolungare nel tempo la chiusura delle miniere, espediente tentato per qualche mese all’apice della crisi ma terminato su forti pressioni dei Governi interessati.Se questo è lo stato di salute del primo produttore, il resto dell’industria non gode di migliore salute. Mentre gli altri tre principali produttori Alrosa, Rio Tinto e BHP Billiton, che assieme a De Beers controllano il 90% della produzione diamantifera, sono molto diversificati ed hanno quindi le spalle coperte dal buon andamento delle altre materie prime, si teme che per gli operatori secondari si possa arrivare al capolinea.L’alternativa di allettare i tagliatori con offerte generose è pure poco praticabile, dato l’elevato indebitamento di questi ultimi. Non resta che sperare nella ripresa dei consumi, ma anche da questo punto di vista le prospettive non sono incoraggianti, Il consumatore americano, tradizionalmente il miglior cliente delle pietre scintillanti con oltre il 40% del consumo mondiale, non sembra più intenzionato a strafare, anche se le recenti vendite natalizie sono state leggermente superiori alle aspettative grazie anche a prezzi al dettaglio scesi di oltre un terzo dai livelli del 2007. La Cina, d’altro canto, rappresenta un mercato in crescita, ma il suo contributo rappresenta per ora solo l’8% del mercato mondiale.Prospettive non proprio rosee, dunque, ma il settore ha già dimostrato di sapersi adattare alle mutate sensibilità dei consumatori. Con la certificazione, ad esempio. I 75 Paesi aderenti al protocollo di Kimberley, dal nome della famosa località sudafricana dove furono scoperti i primi diamanti del continente nero, garantiscono l’origine delle pietre. Si escludono così le pietre provenienti da zone di guerra, o estratti da miniere informali dove sussistono condizioni umane ed ambientali da bolgia dantesca. Ma vi è un’altra misura, caldeggiata da tempo da alcuni operatori ma mai applicata negli anni buoni, che potrebbe incoraggiare potenziali acquirenti titubanti. È quella della trasparenza, non delle pietre ma del loro prezzo. Si tratta di un’impresa ardua, data la difficoltà di ridurre il diamante a «commodity» fungibile. Vi sono migliaia di varietà di diamanti, ed il loro commercio è appannaggio di pochi. De Beers usa ancora il sistema delle aste, alle quali vengono invitati i soliti «sightholders», un centinaio di clienti scelti e fedeli che non possono nemmeno acquistare le pietre che desiderano ma un misto preconfezionato. La crisi sta però mettendo in difficoltà questi meccanismi, aprendo la strada ad un mercato trasparente.Inoltre, l’industria ha notato un accresciuto interesse per gli investimenti alternativi a carattere finanziario, ma finora i diamanti sfuggivano a questo nuovo mercato. Le possibilità d’investimento erano limitate alle pietre stesse, ma unicamente a quelle di grande valore, o alle azioni dei conglomerati minerari. Questi ultimi hanno però interessi limitati nel settore, nel migliore dei casi il 5% della cifra d’affari. Rimangono i titoli di piccola capitalizzazione, con tutti i rischi specifici e di scarsa liquidità. Infatti i diamanti rappresentano l’unica materia prima non quotata alle borse merci. Per uscire da questa situazione l’industria, tramite la Federazione mondiale delle borse di diamanti, ha adottato verso la fine dello scorso anno un «prezzo al dettaglio raccomandato» (SRP, suggested retail price) per le principali categorie di diamanti lavorati. Questa iniziativa rappresenta un’importante pietra miliare per la creazione di un mercato d’investimento in diamanti, ma per affermarsi esso necessita dell’adesione degli operatori. Da questo punto di vista De Beers sembra aver smussato le obiezioni che i diamanti sono assimilabili agli investimenti in opere d’arte piuttosto che alle materie prime. Il nuovo mercato rimarrà comunque un mercato di nicchia, difficile da standardizzare e di taglia inferiore all’oro ed al platino, e che dovrà inoltre affrontare il rischio di un’importante distorsione dei prezzi dei gioielli, proprio come è successo all’oro. In ogni modo, l’apertura di un nuovo canale di vendita è ineluttabile, per cui non trascorrerà molto tempo fino al lancio del primo ETC (Exchange Traded Commodities) sui diamanti.Gianni Rezzonico
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