No Banner to display

Article Marketing

article marketing & press release

Stauros, installazione a Palazzo Ducale Sabbioneta Mantova

RICERCA E SIMBOLO

C’è uno stupore eversivo scolpito nel Prologo del Vangelo giovanneo (“Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi e noi vedemmo la sua gloria”) e in un’analoga affermazione di Giovanni Damasceno: “Ora Dio è stato visto nella carne”. Nella storia delle culture, l’affermazione della “visibilità” di Dio, pertinente alla Rivelazione, è un tema unicamente cristiano, e dirompente. Nella bellezza dell’arte noi leggiamo lo stupore di un mistero che prosegue nel tempo. Essendo l’uomo persona, cioè corporeità spirituale, nessuna via gli è preclusa nell’accesso a quello stupore e a quella gioia: la via del cuore, ovvero l’affettività, che si fida del bene; la via della ragione, ovvero dell’intelligenza, del pensiero e della scienza; la via pulchritudinis, ovvero la via della bellezza e dell’arte. Certo la parola “bellezza” è estremamente complessa, anzi è essenzialmente ineffabile, ossia indefinibile. Nessuno potrà mai definire compiutamente perché sono o appaiono “belli” questi lavori di Giuliano Ravazzini radunati nel piano nobile di Palazzo Ducale a Sabbioneta. Ma la parola “bellezza” la si deve pur pronunciare, soprattutto in un’epoca come la nostra, patologicamente incline al brutto. Alla fine ci accorgeremo che la commozione estetica, che l’appagamento, il piacere, l’atmosfera e la suggestione innescati da questa mistica installazione sono universali, non sono soggettivi bensì oggettivi. E questo ci riporta all’affermazione cruciale di san Tommaso: “Pulchra placent”. Il pulchrum ci affascina inevitabilmente, in quanto riflesso della verità e della profondità.

Con una “misura” tutta italiana, che èvoca un rigore di visione protorinascimentale, Ravazzini – autore meditativo e fine, per nulla incline alle convenzioni culturali e ai vani protagonismi – ha occupato gli spazi architettonici di quest’insigne suite di ambienti palaziali con un variegato corpus di icone cruciformi nate da una ricerca ad hoc, avente le caratteristiche di un progetto nitido e di un ciclo in sé conchiuso, non ripetibile. In parte si tratta di “sculture” realizzate perlopiù con materiali poveri quali legni di recupero e carta (pigmentati con sapiente mestiere), ma anche sabbia del Po; e in parte si tratta di visualizzazioni grafiche (con fogli fitti di grafìe) nonché di simulazioni fotografiche di progetti destinati a una restituzione concreta, tridimensionale, tramite tecnologie specifiche come stereolitografia, cauterizzazione di resine, software a controllo numerico. Insomma, nell’opera di Ravazzini coabitano mirabilmente manualità antica e soluzioni hi-tech.

Senza minimamente preoccuparsi di fare “arte sacra”, con spirito serenamente laico, l’artista reggiano giunge a proporci, quale esito finale, un campionario – di silente ma grandiosa potenza visiva – del maggior signum religioso dell’Occidente, la croce. Ma la sua è, ripetiamo, una sacralità di risulta, il portato visuale d’una capillare indagine sull’iconografia universale della croce condotta con scientifica sistematicità, anche ricorrendo allo strumento Internet.

In questo sublime e raffinato accrochage di Ravazzini noi riconosciamo chiaramente i princìpi culturali dell’arte concettuale contemporanea, così come la definì Sol LeWitt nel 1967 (Artforum, Paragraphs on Conceptual Art): “l’idea diventa una macchina che crea arte”. In questo ciclo di croci di Ravazzini, il valore sta nella prevalenza dell’idea sull’opus, non risiede nelle qualità estetiche specifiche (pur elevatissime) dell’oggetto (la croce), ma nella ricerca e nel discorso – e perciò nella conoscenza – intorno ad esso. Come nei grandi artisti concettuali, l’indagine di Ravazzini diventa di tipo linguistico: la conoscenza dell’immagine designata – la croce – avviene tramite la ricognizione “scientifica” del vocabolario universale inerente all’immagine stessa.

Ne sortisce un unicum di raro splendore, un assieme senza precedenti nell’arte di questi anni recenti, dove ogni singolo pezzo o “vocabolo” va letto come parte di un tutto.

Domenico Montalto

Leave A Comment

Your email address will not be published.

Article Marketing