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IT’S CONEY ISLAND, BABY! Reportage by WorLd Salad

Part 1 “I’m in a New York state of mind” cantava Billy Joel, accompagnato da una serie di arpeggi ed accordi al pianoforte che sono entrati di diritto nella storia del jazz blues moderno. Seduti ad un tavolo esterno del Pershing Square Café, incastonato sotto al viadotto di Park Avenue, non possiamo fare a meno di concordare con il leggendario bluesman. New York non è una città. È uno stile di vita, una condizione esistenziale. Non sono i grattacieli di Midtown o i taxi gialli che sfrecciano impazziti sulla Fifth Avenue ad alimentare il suo battito, e nemmeno le insegne luminose di Times Square riprodotte su cartoline a basso costo. Con un dollaro si può comprarne dieci, ma la vera New York resta tagliata fuori dai loro angoli sgualciti. New York si respira, si vive assieme ai suoi abitanti. La stazione di Grand Central, l’hub ferroviario e metropolitano più importante di Manhattan di fronte al quale ci troviamo, vomita a centinaia le storie di uomini in carriera, turisti, vagabondi che arrivano nel cuore dell’isola da tutta la città. I lustrascarpe, come cent’anni fa, continuano a lucidare le stringate di chi osserva il mondo dall’alto di una poltrona di cuoio sbiadito. Qui tutti sembrano essere i personaggi di una stessa Storia benché ognuno, una volta tornato a casa, sia il protagonista della propria. Siamo tutti affetti dal New York State of Mind. Ma quale storia può rappresentarlo in tutte le sue sfumature? Quale tessera del mosaico ci appartiene e va a completare il disegno policromatico della Grande Mela? Per farlo questa volta, proviamo ad allontanarci dall’isola di Manhattan, troppe volte confusa con la città stessa di New York. Non a Williamsburg o ad Astoria, quartieri-estensione dell’isola di vetro e acciaio, ma a Coney Island, a due ore di metropolitana dal brulicare frenetico sotto il Crysler Building. La punta più meridionale di Brooklyn, dove New York finisce e il resto del mondo inizia. In metropolitana, la linea N che parte dal Queens, attraversa Manhattan e scorre per tutta Brooklyn sud, cambiamo la nostra playlist. Billy Joel, ti vogliamo bene, ma sei pur sempre del Bronx. Play: Lou Reed, “Coney Island Baby”.

I vagoni si svuotano e si riempiono di passeggeri, diventano il palco di predicatori religiosi e gruppi musicali improvvisati. La metropolitana passa dai cunicoli sotterranei di Manhattan ai più comuni binari in superficie, rendendo ancora più evidente il contrasto tra lo skyline di grattacieli che ci siamo lasciati alle spalle con le case dai tetti bassi di Brooklyn, simili a dei Lego gialli. Brooklyn South, Sheepshead Bay, Ocean Avenue. Dal finestrino vediamo il parallelepipedo grigio-rosa di Stilwell Avenue, la stazione metropolitana. Stiamo arrivando a Coney Island. “Sodom by the Beach”, la Sodoma del Mare.

Venne così chiamata dal New York Times nel 1893, ad alimentare la sua fama di covo di ladruncoli, donne disinibite e “freaks of nature” – i fenomeni da baraccone -, di cui oggi è rimasta una piccola mostra per curiosi. Ma è stato anche il luogo che per primo ha ospitato il Luna Park, con il Cyclone Roller Coaster e la ruota panoramica rossa e verde – ancora in funzione -, gli elefanti ammaestrati e i lanciatori di coltelli. Mentre il resto del mondo veniva ancora illuminato dalle candele, la notte di Coney Island si trasformava in un paradiso di giochi d’azzardo e luci artificiali. Ora l’età dell’oro di Coney Island si è incagliata come in una risacca marina, per lasciar posto a qualche museo di curiosità e ad artisti nostalgici che si esibiscono per pochi curiosi. Nel 2008, il Luna Park venne chiuso per costruire un centro commerciale, che avrebbe dovuto risollevare la condizione economica di quell’ultimo avamposto newyorkese, ma l’attaccamento dei suoi abitanti alla “boardwalk” e alla sua storia ha convinto le autorità ad abbandonare il progetto e a ripristinare il normale corso di Coney Island, scandito da bagnanti sovrappeso, feste in riva al mare, musica latina e fuochi d’artificio ogni venerdì sera. Gli abitanti di Coney Island non hanno nulla a che fare con i broker del distretto finanziario o le fashionistas dell’Upper East Side. Manhattan è lontana. Qui, alla sfarzosa parata del 4 Luglio sponsorizzata da Macy’s (il fashion store più grande al mondo) si preferisce l’Hot-dog Eating Contest, indetto da Nathan’s (gli hot-dog più buoni al mondo). Nel 2011, la vittoria è andata, per la quarta volta di fila, a Joey Chestnut, con 54 hot-dog in 10 minuti. Non ha superato il suo record di 68 hot-dog ingoiati nello stesso tempo, ma la folla a perdita d’occhio ha comunque esultato sotto il sole cocente, tra birre e svenimenti. Una ragazza abbronzata e biondissima si sente male. “Baby, questa è Coney Island!” la apostrofa una voce gioiosa che sale dalla folla.

Coney Island è un mondo a parte. Vive di ricordi e di speranze, spesso disattese. Sembra aspettare un perenne riscatto o una nuova nascita. Sarà per questo che la Mermaid Parade, la parata delle sirene omaggio alla tradizione perduta del Mardi Gras, è un evento al quale nessuno può mancare. Nessuno che condivida l’orgoglio di appartenere alla storia di Coney Island e alla libertà di espressione artistica e popolare che è sempre stata baluardo di questa lingua di terra affacciata sull’Atlantico. La boardwalk sul mare ritorna in mano ai suoi veri abitanti per diventare la passerella di sirene, tritoni, creature marine, bande musicali e macchine d’epoca, guidati da Re Nettuno e dalla Regina delle Sirene che lanciano frutta all’oceano per ingraziarsi gli dei del mare, mentre le ballerine di burlesque in coda alla sfilata si ingraziano gli spettatori e i gabbiani.

Oggi, al tramonto, la banchina sull’oceano è quasi deserta. I negozi di souvenir dai disegni sgargianti cercano di attirare ancora qualche cliente, ma la maggior parte preferisce riposarsi ai piccoli baretti e fast-food che formano un ideale muro divisorio tra la boardwalk ed il resto della città. Perfino le bottiglie di birra hanno un’etichetta dedicata alle meraviglie di Coney Island, come la donna-serpente o la sensuale mangiatrice di spade. Meraviglie, perché qui la diversità non è paura, ma bellezza. Molti turisti credono che Coney Island sia diventato un patetico parco giochi, incapace di staccarsi da un passato glorioso e di risollevarsi dal decadimento che la divora di giorno in giorno. Noi, seduti ad un tavolo di alluminio con la donna-serpente che ci ammicca dalla bottiglia di birra e il sole che affonda nel mare, non siamo d’accordo. Le serrande abbassate hanno imprigionato all’interno dei chioschi l’aria carica e dolciastra di hot-dog e mele caramellate, e permettono al sapore del mare di raggiungerci ed ammaliarci. La gente, incurante del cambiamento appena avvenuto, continua a bere, ridere, ballare. Questo è il suo spirito, il suo state of mind. E il suo orgoglio ci ricorda qualcosa. Prendiamo la metropolitana, si torna a Manhattan. C’è solo un altro posto che condivide un tale orgoglio per la sua storia e per i suoi abitanti. Via, fino alla 125ma strada: Harlem, Apollo Theater. La culla della musica black. “Long live the music” dice il suo motto. Viva la musica. Accendiamo l’i-pod. Play: Michael Jackson, “Beat it”.

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