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Causalismo e Naturopatia: una stretta correlazione

La diatriba tra determinismo e indeterminismo è antichissima, chiamando in causa il libero arbitrio. Che ogni evento sia dovuto ad una causa con la quale si lega è il concetto base al quale aderisce il causalismo.

Anassagora, Platone e gli stoici sono i filosofi che promulgavano una relazione tra causa-effetto anche sul piano intellettuale. Aristotele, nella sua opera “Fisica” elenca quattro tipi principali di cause:

  • la causa materiale, con riferimento a ciò che compone una cosa
  • la causa formale, riferita alla forma e all’essenza principale della cosa
  • la causa efficiente, che è l’agente producente
  • la causa finale, in riferimento al fine, allo scopo per il quale la cosa viene prodotta

Il famoso astronomo Pierre-Simon de Laplace asseriva: "Noi dobbiamo considerare lo stato presente dell’ universo come l’effetto di un dato stato anteriore e come la causa di ciò che sarà in avvenire".

Quanta possibilità di azione resta disponibile all’uomo per modificare la relazione tra causa ed effetto? Ciò dipende da un elevato numero di fattori, che indirizzano verso un modello probabilistico e non deterministico; tale modello è contemplato dalla fisica quantistica; con una concezione probabilistica della causalità, che riporta al principio di indeterminazione.

La relazione temporale tra causa ed effetto, in biologia, non è contemporanea, può distare, nel tempo, qualche miliardesimo di secondo oppure qualche anno. Sul piano della salute l’intervallo che separa la causa dall’evento causato, permette di intervenire per modificare poco o tanto il risultato finale.

La naturopatia sposa il causalismo, proprio perché permette di porre in relazione il sintomo (quale manifestazione) alla propria causa, ovvero a ciò che, per una legge naturale, sta imponendo un evento che si sta palesando gradatamente. Siccome ogni azione attiva un processo al quale si legheranno gli eventi successivi, bisogna per prima cosa intervenire sull’azione attuando una prevenzione ottimale. Dal momento che l’uomo agisce ed interagisce con tutto ciò che lo circonda il suo agire deve coerentemente svolgersi a vari livelli: ambientale, familiare, lavorativo, naturale, personale, mentale, intellettivo, eccetera; ecco perché la prognosi è sempre un processo intellettuale probabilistico.

La salute è il risultato di un insieme di comportamenti tra loro interlacciati dei quali ogni individuo deve assumere consapevolezza, affinché si svolgano secondo le leggi che governano la natura, ovvero le leggi cosmiche. Porsi al di fuori o contro le leggi della natura, procura una serie di danni che possiamo rintracciare nella medicina allopatica, quale intervento che raramente tiene conto dell’interferenza che un farmaco provoca in sistemi “intelligenti per natura”, quali i processi vitali di un uomo.

Emile Boutroux (1854 – 1921) critica il determinismo assoluto e rifacendosi al concetto di complessità che governa la creazione, nei suoi scritti "Della contingenza delle leggi di natura" (1874) e "Dell’idea di legge naturale nella scienza e nella filosofia contemporanea" (1895), spiega come l’uomo non possa provare con sicurezza la relazione causa-effetto, proprio per i caratteri di individualità, di novità e di libertà che nell’uomo sono vigenti, postulando all’interno dei fatti naturali e oggettivi la presenza di principi metafisici, che nel linguaggio contemporaneo diremmo mentali.È nel “contingentismo” di Boutroux che la scienza della natura basa il suo concetto di causa, però il rapporto tra questa e l’effetto, passa attraverso una necessità che è sempre qualcosa di nuovo e quindi imprevedibile, ovvero contingente.

I processi mentali oggi sappiamo possono modificare (in meglio o in peggio) lo svolgimento di un percorso terapeutico. Solo nelle macchine è applicabile la proprietà deterministica.
La responsabilità individuale e la possibilità di governare se stessi nella visione di una giusta realizzazione del proprio essere, si rintraccia in Pico della Mirandola, nello scritto “Della dignità dell’uomo”, nel quale afferma che tramite il suo libero agire ognuno diventa artefice del proprio destino: “Ti posi nel mezzo del mondo, perché di là meglio tu scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale, né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti; tu potrai secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono divine”.

L’enfasi di Pico della Mirandola in Giovanni Stuart Mill (1806 – 1873) viene decisamente ridimensionata con il “Principio di uniformità della natura” nel quale il filosofo postula che “cause simili, in condizioni simili, producono effetti simili”. Con questo concetto ci troviamo nel fenomenismo nel quale il principio di causalità trova l’applicazione nei valori costanti e stabiliti.

Tale approccio non può invece applicarsi al pensiero naturopatico, proprio perché ogni individuo, ogni momento e ogni contesto pur potendo presentare delle similitudini, sono comunque unici nel loro genere, perché al centro del sistema non vi è una macchina ma un uomo pensante ed emozionabile; proprio per questo all’uomo sono applicabili comportamenti stocastici.

La medicina può studiare e valutare statisticamente solo giungendo a risultati generali, applicabili alla ricerca allargata, appartenendo essa alle scienze nomotetiche. Quando è l’uomo nella sua singolarità ad essere studiato, allora le conoscenze generali servono solo quale base. “Ogni paziente è un caso unico. La medicina, pur facendo parte delle Scienze Naturali, è invece da tempo classificata come scienza idiografica, perché si occupa sia di eventi singoli non sempre ripetibili che di individui se non unici certamente peculiari”. (Dioguardi N., 2000, p.45).

Nel vitalismo bergsoniano è l’impulso spontaneo, quale “slancio vitale”, a produrre la novità attraverso un processo evolutivo. Dove c’è vita vi è un continuo cambiamento verso forme nuove ed imprevedibili. Quando ci si appella al caso in realtà lo si fa perché si ha difficoltà a comprendere ed ordinare una multiformità di eventi che nella loro complessità, possono erroneamente apparire come staccati; invece secondo il causalismo ogni parte comunica e relaziona con il tutto.
In tale complessa rete di relazioni tra cause ed effetti, nell’ambito dell’intervento naturopatico, non resta che porre il naturopata quale “mediatore”.

La mediazione si basa su un processo naturale, innato, che permea tutto il creato. La mediazione consegue ad una logica che fa sì che il naturopata colga l’elemento causante, cioè lo squilibrio. Nella filosofia, per mediazione si intende il passaggio da una proposizione ad un’altra, passando attraverso proposizioni intermedie che permettono di fatto la relazione tra le due. In questo processo il naturopata diviene il portatore di buone informazioni, sensate e coerenti tanto da permettere all’assistito di comprendere la relazione tra la causa (elemento attivatore del disturbo) e l’effetto (sintomo palesatosi chiaramente, o ancora silente).

La mediazione si pone tra la causa e l’effetto, per mitigare, modificare, correggere, il risultato dell’effetto; tale spazio può essere più o meno ampio a seconda delle circostanze, e fa assumere al naturopata il ruolo di educatore e consigliere, per dirla alla Martin Heidegger (1889 – 1976) per far emergere dalla “vita banale” e attingere il sapere della “vita autentica”.
La mediazione viene anche intesa come conseguenza naturale intuitiva, ovvero rivelata senza la necessità di ricorrere a ragionamenti razionali. Nella filosofia bergsoniana l’intuizione viene legata all’analisi.

L’analisi opera in superficie, mentre l’intuizione nel profondo dell’uomo. Analizzare significa, come l’etimo greco rivela, sciogliere una cosa nei suoi elementi costitutivi, separarli l’uno dall’altro: porre l’uno accanto all’altro, per studiarli così separati. Ciò non può avvenire che nello spazio, perché lo spazio è, per definizione, ciò che permette a una cosa di stare “fuori” dell’altra. Questo metodo analitico di indagine ha, osserva Bergson, un’enorme importanza pratica: per agire noi dobbiamo anzitutto distinguere una cosa dall’altra e noi stessi dalle cose; inoltre, agendo, non facciamo che mutare i rapporti spaziali tra gli oggetti materiali precedentemente distinti.

L’analisi, quindi, sebbene abbia il carattere di un’operazione meramente intellettuale, non fa in realtà che abbozzare gli schemi di un insieme d’azioni possibili; e il suo oggetto si trova sul piano delle cose materiali, fatte di reciproca esteriorità. I concetti, cioè gli elementi su cui lavora l’analisi, parrebbero cose meramente mentali e inestese: ma se si bada alla loro funzione, ci s’accorge che, in realtà, la loro essenza aderisce strettamente alla materialità, che essi sono come figure schematiche di oggetti materiali possibili e dei loro rapporti”. (Mathieu, 1957, pp. 15 – 16).

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