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di Emanuela SabbatiniMancano solo venti minuti alle otto. Otto di sera, o otto del mattino. Venti minuti. Un arco di tempo sostenibile nell’attesa, esiguo nella resa. Quei venti minuti prima che la sveglia suoni o prima di immergersi nel traffico della città. Quei venti minuti di coda per tornare a casa la sera dopo il lavoro, o quelli per preparare di corsa la cena. Due serie da dieci minuti di pura quotidianità, quella che ritrae un po’ tutti, quella che ci rende un po’ tutti simili. Sasha Waltz, coreografa tedesca tra le più illustri nel panorama contemporaneo, ha recentemente riportato in scena, in occasione del Romaeuropa Festival, Travelogue I, prima parte della trilogia intitolata Twenty to eight, un lavoro che nel 1993 l’ha imposta all’attenzione del mondo della danza e della critica internazionale. A diciannove anni di distanza, Sasha Waltz torna on stage, danzando con un corpo di ballo misto, fatto di coloro che quel Twenty to eight lo misero in scena per la prima volta e nuovi performer; un impasto di vecchio e nuovo che ben rende qualcosa che ieri come oggi parla ancora di noi. E la prima sensazione è che in quella cucina in technicolor sbiadito, stretta tra due pareti oblique quel tanto che basta a ricordare un po’ di Caligari e portarci nella sua Germania, Sasha Waltz ci sia rimasta. E qui, “rimanere” non è sinonimo di “fermarsi”, quanto di ritornare per scoprire che quella quotidianità dove routine e reiterazione di gesti, fame atavica e incapacità di condividere, attrazione e respingimento, caos e non curanza, assenza di spazi propri e luoghi di obbligatoria condivisione, è atemporale. Va oltre l’era del telefonino e di internet. Va oltre I-pod e Skype. Come va oltre il post caduta muro di Berlino. In uno spazio che si sdoppia, quello colorato della cucina, con tavolo sedie e frigo, e con una porta che apre ad un ambiente dalle pareti rosse, e quello accanto, nero antracite dove, disegnati sui muri, quasi fossimo nella scenografia di Dogville, stanno un comodino con abat-jour, e il contorno di un letto salva spazio, si consuma la quotidianità di una comunità composta da tre donne e due uomini. Quella della Waltz è un riflessione profonda e attenta sulla vita, quella fatta di cose “normali”, dove nel mescolare i gesti banali della quotidianità, si origina una danza senza fronzoli, incurante di estetiche da manuale eppur piacevole e, urgente. Già, urgente. Perché in corpi tesi in azioni meccaniche che strappano dapprima un sorriso e poi un barlume di angoscia, c’è l’urgenza di raccontare oltre qualunque mythos. Perché in scena non va un racconto figurato. La storia che si svolge ci ricorda proprio l’assenza strutturale e necessaria del rimando ad una storia in particolare. Quel che resta è l’uomo. Singolo, e in gruppo. In colui che sopraffatto dai rumori e incapace di trovare un luogo proprio sta come un pupazzo tra gli altri, fingendo e arrabattandosi per trascorrere la giornata, nei sogni di una donna sola, nel continuo sbattersi di porte in un botta e risposta che coinvolge solo chi tira la maniglia e lascia fuori, incuranti gli altri inquilini, nell’incapacità di privarsi del concetto di proprietà e nel rendere all’altro solo le briciole, nell’appassionarsi e nel desiderare e poi violentemente respingere: è in queste cose che si gioca la storia. Ed è la storia di tutti. Non a torto la Waltz pare nostalgica nel voler tornare a raccontare di persona, col proprio corpo, ancora una volta l’ordinario. Perché oggi pare che sia il quotidiano ad essere così attrattivo: dai reality, ai talent è l’uomo comune, con le sue piccole azioni a divenire interessante. E la Walz ci ricorda da dove è partita la sua riflessione in quel lontano 1993. Ma non è tutto. Perché a danzare è l’ordinario di una comune dei giorni x, dove la vita insieme amplifica le tematiche e le problematiche umane al di là di qualunque tempo, luogo, ruolo. Rumori di oggetti ed elettrodomestici, corpi tesi nello scontro e appaiati in un tocco leggero, momenti di teatro tout-court, e richiami nostalgici al cinema del silenzio. La Waltz ci rende partecipi del suo concetto di opera d’arte totale e mai come oggi è palese che abbia ragione: né canoni, né estetiche “winkelmanniane”, né confini: il teatro, la danza, l’arte visiva oggi sono un gioco di scatole cinesi dove definire quella che sta dentro e quella che sta fuori è una semplice questione nostalgica.
Tags: Emanuela Sabbatini, Popsophia, Romaeuropa Festival, Sasha Waltz, Travelogue I, Twenty to eight
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