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Dal laboratorio al palcoscenico: La gestalt e il teatro

L’essenza del teatro, risiede nel sapere che di teatro si tratta, che si sta recitando, mettendo in scena, mimando, in una realtà che è del tutto finzione […] l’autenticità è nell’illusione, nel recitarla, nell’osservare in trasparenza dal suo interno mentre la recitiamo, come un attore che vede attraverso la sua maschera, e solo in questo modo può vedere”. (Hilmann 1984)

In questi due anni di frequenza dell’istituto Atmos artiterapeutiche (www.corsiatmos.flazio.com) tante sono state le esperienze significative sia dal punto di vista professionale che della crescita e sviluppo personale. Vorrei però, in questa sede, menzionare due attività alle quali mi sento particolarmente legato: quella laboratoriale di “tra musica e teatro” e quella teatrale relativamente alla realizzazione di “Editing Edipo” (una rivisitazione, in chiave gestaltica, della tragedia di Sofocle portata in giro in varie città italiane con discreto successo di critica e di pubblico). Entrambe mi hanno dato la possibilità di sperimentarmi in qualcosa di completamente nuovo e sorprendente. Sembra solo ieri quando, alla fine di un faticosissimo laboratorio, Gianluca mi chiede: E tu perchè non fai l’Edipo?… Io un po’colto impreparato, un po’ ignaro di quello che mi aspettava, un po’stanco e emotivamente confuso, non seppi svincolarmi. Tre giorni dopo (tre giorni di attesa snervante) mi ritrovai a 200 km da Roma, e dalle mie rassicuranti abitudini, a calcare le scene del vecchio teatro comunale di Castro dei Volsci, in provincia di Frosinone. Alle 9 di sera, con solo una misera Peroni in corpo, debuttai. Sospinto da una invisibile mano mi ritrovai, tremante, davanti al pubblico; “nudo”, senza protezioni, costretto a sfidare i tabù, le mie paure, le resistenze e l’idea che fino a quel momento mi ero fatto di me stesso, (la quale tenacemente difendeva la sua sopravvivenza). Alla fine quando il pubblico, sebbene un po’perplesso, ci tributò un lungo applauso, tutti noi, ancorché stremati, fummo invasi da una gioia incontenibile che sentimmo il bisogno di condividere, spontaneamente e perfettamente in contatto con le nostre emozioni, ci riversammo in platea come un’orda dionisiaca, suonando, ballando, cantando, in uno stato d’animo di esaltazione collettiva. Fu bellissimo, illuminante, mi sentivo libero, respiravo.
Compresi quanto fino ad allora convinzioni, idee rigide, schemi e copioni ripetitivi, mi avessero limitato nella capacità di sperimentare e scoprire nuove parti e possibilità di essere. In quel momento raccoglievo i frutti di un seme che era stato piantato anche durante gli odiati-amati laboratori. Mi parve strano e incredibile che quel “delirio collettivo”, quella sorta di girone infernale in cui finivo il mercoledì sera, potesse funzionare, avere un potere trasformativo eppure era così: attraverso la musica, il suono, il ritmo, il movimento, il corpo, la voce, il gesto, il silenzio, il gioco della follia, l’incontro con l’”altro”, l’incontro con parti di me attraverso l’altro, accadeva qualcosa; una sorta di miracolo, qualcosa dentro come per in una reazione alchemica, trasmutava.
Il vecchio vestito troppo stretto e inamidato, lasciava il posto ad uno nuovo che io stesso tagliavo e cucivo su di me, un vestito su misura nel quale potevo sentirmi a mio agio, che finalmente mi permetteva di respirare. Per apprendere avevo dovuto immergermi in “una corrente viva di esperienze in continuo cambiamento”.

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