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Certificazione Bancaria:eccezione sull’art. 50 D.lgs 385/93

 

Eccezione sull’art. 50 D.lgs 385/93: “autocertificazione dela Dirigente di Banca”.

Con la presente citazione il Sig. ………. si oppone al Decreto Ingiuntivo notificato per i seguenti

MOTIVI

Illegittimità delle somme richieste dalla Banca

La Banca ha chiesto il pagamento della somma di Euro ……… oltre interessi al tasso del Prime Rate Abi d’istituto dal ../../…. al saldo, ricomprendendo in detto importo anche gli interessi di mora convenzionali maturati “come si evince dalla Certificazione di Credito emessa dalla Banca ai sensi dell’articolo 50 D.lgs 385/93 e dagli estratti del conto corrente che pure si dimettono in atti…”  come si legge al punto …del ricorso.

Dunque, l’elemento cardine, sul quale si fonderebbe l’ingiunzione è offerto dal D.lgs 385/93, più noto come Testo Unico sulla Legge bancaria, e più precisamente dall’art. 50 D.lgs 385/93; tale norma, offre la possibilità a tutte le Banche, di chiedere ed ottenere ingiunzione di pagamento ex art. 633 c.p.c. sulla base dell’estratto conto “certificato” conforme alle scritture contabili tenute dalla Banca istante.

Al riguardo la prima importante considerazione da formulare è che questa  certificazione altro non è che effettuata da “uno dei dirigenti” della banca, il quale dichiara altresì, sotto la propria responsabilità che il credito per il quale si procede è “vero e liquido”.

Orbene l’art 50 integra il requisito di “ prova scritta” ai sensi dell’arr 633 comma 1, n° 1) c.p.c. proprio in virtù dell’espresso richiamo operato dallo stesso articolo art. 50 D.lgs 385/93, cioè la norma in parola, consente di equiparare l’ ”estratto conto” alle diverse fattispecie di prova scritta  espressamente elencate dagli artt. 634, 635, 636 e  642 c.p.c. Dunque, l’art 50 TULB introduce una fattispecie nuova ed autonoma rispetto a quelle considerate dal c.p.c., derogando in tale modo al generale principio della non invocabilità a proprio favore del documento redatto da una delle parti. Tanto assume particolare rilievo in ragione del fatto che le “prove scritte” considerate nella richiamata disciplina codicistica sono generalmente poste in essere con la partecipazione al procedimento di formazione di un soggetto in posizione di terzietà. Questo è utile a garantire quel minimo di controllo presupposto al procedimento sommario. E’ evidente allora che tale circostanza non si verifica per quanto concerne l’estratto conto ex art. 50 D.lgs 385/93, infatti, tale norma,  demanda alla stessa banca istante, che come è evidente  diventa arbitro di se stessa, l’accertamento in ordine alla sussistenza dei requisiti richiesti dalla legge.

E’ pur vero che la Banca ha provveduto ad allegare l’estratto conto ma in particolare, l’art. 50 del t.u.l.b. richiede che “tale documento non sia soltanto quello che esprime la situazione finale del rapporto, al momento in cui esso ha termine, ma anche quello che rappresenta il risultato di tutte le operazioni verificatesi fino a una certa data, e la contabilizzazione delle medesime con l’indicazione di un saldo attivo e passivo, comprensivo di ogni ragione di dare e avere” (in tal senso vedasi Cass. 12-4-1980 n. 2336; Cass. S.U. 10-10-1977 n. 4310 nonché la relazione illustrativa del d. lgs. 385/93).

“Il mero saldaconto non fornisce dunque adeguata prova del credito della banca” (cfr. Cass. S.U. 18-7-1994 n. 6707); infine (secondo una costante giurisprudenza di legittimità e di merito) il dato contabile trascritto sulla certificazione bancaria,  riveste la qualità di una mera presunzione da avvalorarsi, nel corso del giudizio, attraverso una serie di ulteriori elementi.

Tali dati, nella fattispecie, potranno ricavarsi mediante la produzione delle singole schede di "movimento" del conto corrente sul quale sono riportate le partite creditorie e debitorie che hanno determinato il saldo oggetto della richiesta d’ingiunzione.

 

a)La capitalizzazione trimestrale degli interessi

Accade spesso che la Banca, adduca  tra i motivi del ricorso, un  conto corrente a saldo costantemente a debito.

Ciò per effetto sicuramente, della capitalizzazione trimestrale  di interessi calcolati sempre al saggio ultralegale, nonché  per illegittimi addebiti di spese e commissioni non pattuiti per iscritto e comunque non dovuti. A ciò deve aggiungersi la commissione di massimo scoperto voce di pura invenzione bancaria, che si risolve nell’applicazione di un tasso di interesse superiore a quello ultralegale già applicato.

Il tutto in violazione di quanto prescritto dall’art. 1284 c.c. dagli art 4 e 6 legge 154/92 e dagli art 117 e 118 D.Lgs. 385/93.

 

b)In merito al calcolo degli interessi passivi

La Corte di Cassazione a Sezioni unite con Sentenza n. n. 21095 del 4 novembre 2004 ha sancito una serie di dettami che accordano proprio in materia di calcolo degli interessi passivi una tutela maggiore per gli utenti delle banche.

La Suprema Corte, infatti, ha stabilito che "le clausole di capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi dovuti dal correntista devono considerarsi nulle anche se contratte prima dell’orientamento giurisprudenziale che nella primavera del 1999 ne ha negato la legittimità".

In sostanza, la Suprema Corte ha attribuito valore retroattivo all’inesistenza dell’uso normativo della capitalizzazione trimestrale degli interessi;

fino al 1999, poiché l’art. 1283 C.C ( il quale stabilisce che, in mancanza di usi contrari, gli interessi passivi scaduti possono produrre interessi –anatocistici- solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre che si tratti di interessi dovuti almeno per sei mesi) veniva interpretato dalla prevalente giurisprudenza, nel senso di attribuire alla locuzione “ in mancanza di usi contrari” un valore sostanzialmente negoziale. Le banche, cioè, hanno da sempre capitalizzato trimestralmente gli interessi, sfruttando il bisogno dei correntisti di porre in essere una serie di operazioni bancarie, principalmente prestiti.

A decorrere dal 1999, la Suprema Corte è intervenuta a specificare che "gli usi contrari, suscettibili di derogare al precetto di cui all’art. 1283 c.c.,  sono non i meri usi negoziali ex art. 1340 c.c. ma esclusivamente i veri e propri usi normativi, di cui agli articoli 1 e 8 disp. Prel. C.c., consistenti nella ripetizione generale, uniforme, costante e pubblica di un determinato comportamento (usus), accompagnato dalla convinzione che si tratta di un comportamento (non dipendente da un mero arbitrio soggettivo) ma giuridicamente obbligatorio, in quanto conforme a una norma che già esiste o che si ritiene debba far parte dell’ordinamento giuridico" (sentenze n. 2374 e n.3096/99).

Gli "usi" cui fa riferimento l’art. 1283 C. c., dunque, sono esclusivamente quelli normativi in senso tecnico.

Ne consegue che, (come da orientamento oramai costante della Corte di Cassazione: Cass. Civ. 18 settembre 2003, n. 13739; Cassazione Civile, Sez. I, 1 ottobre 2002, n. 14091; Cassazione, Sez. I, 28 marzo 2002 n. 4498; Cassazione, Sez. I, 28 marzo 2002 n. 4490; Cassazione, Sez. I, 1° febbraio 2002 n. 1281; Cassazione, Sez. I, 11 novembre 1999 n. 12507; Cassazione, Sez. III, 30 marzo 1999 n. 3096), si dovranno ritenere nulle tutte le clausole bancarie riguardanti l’anatocismo, il cui inserimento nel contratto sia il frutto di una mera volontà unilaterale della banca.

Non solo. Come già accennato, anche le clausole di capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi dovuti dal cliente ad una banca sono nulle, in quanto esse non rispondono ad un uso negoziale, anche se le stesse siano nel contratto specificate come "conformi alle norme bancarie uniformi”.

Il merito della sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione è quello di confermare tale orientamento partendo dalla convinzione che gli utenti si sono abituati alla capitalizzazione trimestrale dell’interesse passivo non perché "convinti" che fosse conforme alla normativa del settore, ma perchè inserita nei moduli unilateralmente predisposti dalle banche e perché la sottoscrizione di tali clausole costituiva un elemento imprescindibile per poter effettuare determinate operazioni bancarie.

Constatando, dunque, che la "convinzione" dei singoli utenti bancari relativamente alla regolarità della capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi e alla corrispondenza di tale pratica ad un obbligo imposto dall’ordinamento, non è mai realmente esistita, non potrà trovare applicazione la disciplina dell’art. 1283 c.c. relativo agli "usi contrari".

Le clausole anatocistiche, quindi, sono da considerarsi invalide ancora prima del 1999. Si consideri allora che a seguito della contabilizzazione trimestrale, l’Istituto bancario ha operato l’addebito ripetuto nell’anno delle spese addebitate sul conto corrente quattro volte l’anno con una risultanza contabile maggiore, e ritenuta illegittima dalla Corte di cassazione  con ulteriore e nota sentenza n. 425/00, rispetto a quella effettivamente dovuta.

L’applicazione degli interessi passivi ripetuta nel corso dell’anno nei contratti pregressi è dunque costituzionalmente illegittima,  e consente la richiesta da parte del cliente della restituzione degli interessi versati e non dovuti.

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