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L’Iran e i problemi della sua crisi interna

Il nuovo missile iraniano, sperimentato nelle scorse ore, è stato
generalmente interpretato come l’ennesima prova di un negoziato
impossibile.
Teheran ha dapprima cancellato l’intesa raggiunta in
ottobre per lo scambio di uranio parzialmente arricchito contro uranio
maggiormente arricchito in Francia e in Russia (una formula che avrebbe
permesso alle democrazie occidentali di meglio controllare
l’utilizzazione del combustibile per scopi pacifici). Poi, più
recentemente, ha proposto che lo scambio dell’uranio avvenisse in
un’isola iraniana, spesso usata come zona franca, per quantitativi
alquanto inferiori a quelli previsti dal primo accordo. E non ha smesso
nel frattempo di ostentare la sua potenza missilistica. Sembra di
comprendere che il partito dei falchi ha preso il sopravvento e sta
alzando barriere che servono soprattutto ad allontanare la prospettiva
di un accordo. Ma la proposta avanzata qualche giorno fa (e respinta
dagli occidentali come insufficiente) sembra indicare che esiste a
Teheran anche un partito dei negoziati, deciso a impedire che la
fiammella del dialogo si spenga definitivamente.
Per meglio
comprendere questo stallo occorre spingere lo sguardo al di là del
negoziato nel labirinto della politica interna iraniana. Le elezioni e
le grandi proteste delle settimane seguenti hanno provocato effetti di
cui noi intravediamo soltanto alcune manifestazioni esteriori. La guida
suprema ha imposto l’elezione di Ahmadinejad, ma è ormai, a sua volta,
contestata dalla piazza. L’opposizione è stata duramente combattuta e
repressa, anche con la condanna di persone che appartenevano
all’establishment politico-religioso della Repubblica islamica. Ma i
suoi leader non rinunciano a esprimere pubblicamente e a promuovere,
per quanto possibile, dimostrazioni popolari. Ahmadinejad esercita le
sue funzioni, ma esistono forze più radicali, a quanto sembra, che
vorrebbero al suo posto l’esponente di una linea più dura.
Si
direbbe che le elezioni abbiano provocato un regolamento di conti ,
all’interno del regime fra una fazione (i guardiani della rivoluzione)
che vogliono cogliere l’occasione per estendere il loro potere, anche a
scapito della guida suprema, e un gruppo di riformatori che vorrebbero
conservare l’ispirazione musulmana dello Stato, ma dare più spazio alla
società civile e alle energie economiche del Paese.
Il negoziato
nucleare è finito nell’ingranaggio della crisi e ne è per molti aspetti
l’ostaggio. E’ possibile che Ahmadinejad ne desideri il successo, anche
per poterne rivendicare il merito e che i massimalisti ritengano invece
di potere meglio conquistare il potere in un clima di tensione e di
isolamento internazionale.
La migliore politica dell’Occidente, in
questo caso, sarebbe probabilmente quella di lasciare che la crisi
iraniana faccia il suo corso e produca i suoi effetti. Ogni iniziativa,
soprattutto se bellicosa, potrebbe giovare in ultima analisi all’ala
dura del regime. Ma il presidente Obama attraversa una fase difficile.
I suoi avversari lo accusano di essere stato troppo conciliante con
tutti coloro, dall’Iran alla Russia, che rappresenterebbero una
minaccia per l’America. Lui stesso, quando offrì a Teheran l’occasione
di una svolta, fissò una scadenza (la fine dell’anno) che i
massimalisti del regime iraniano possono presentare ai loro compatrioti
come un intollerante ultimatum. Se non vi sarà una schiarita
dell’ultima ora, Obama dovrà proporre all’Onu, dopo quelle recentemente
approvate dal Congresso, nuove sanzioni. Potrà contare probabilmente
sull’appoggio della Germania e della Francia, ma non su quello della
Russia e della Cina. E le sanzioni si dimostreranno poco efficaci o
comunque non tali da indurre l’Iran a cambiare la sua politica.
Il
problema in ultima analisi è a Teheran. Ci piaccia o no occorre
aspettare che l’Iran esca dalla sua crisi. Soltanto allora conosceremo
il volto del nostro interlocutore e le sue intenzioni.
Autore : Sergio Roma

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