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L’avanguardia avanza: intervista al duo teatrale Ricci e Forte

di Emanuela Sabbatini Il mostro massmediatico loro lo conoscono bene. Si sono mossi nella pancia televisiva firmando una serie tv come i Cesaroni e poi? Poi sono approdati al palco teatrale e sono diventati gli enfant prodige del teatro contemporaneo italiano. Stiamo parlando di Stefano Ricci e Gianni Forte. Due chiacchiere sul loro lavoro tra contaminazioni pop, senso della vita, pornografia, morte. C’è opposizione o continuità tra i progetti teatrali di oggi, il lavoro tv di ieri e il mormorato film in programma nel 2012? Il flusso continuo, la corrente, il bisogno di addizionare strati, derma in un minipimer interdisciplinare. Non si tratta di opporsi a sentieri precedenti o di assecondare il Presente, alimentando un fuoco confortevole. E’ grecale, che soffia attraverso le costole aiutandoci a fare esperienza dei giorni vissuti. Con identico spasmo, nutrito dalla curiosità del potenziale espressivo, ci siamo avvicinati alla TV, per noi globe trotter del palco. Lo snobismo così provinciale che accompagna il nostro Paese nel giudicare chi trasversalmente guarda i media, impedisce di comprendere che le isobare con cui il destino ci mette a confronto modificano solo la direzione del vento, non la fermano. La grammatica televisiva, quella teatrale o, nell’immediato futuro, quella cinematografica sono universi con leggi precise, all’interno dei quali si può però continuare a cercare il proprio Sé, in comunione col respiro universale. Chi entra in contatto con un vostro lavoro si rende conto che non assume il semplice ruolo di spettatore. C’è nei vostri lavori, una logica da reality show, una sorta di concedere a tutti quei minuti di popolarità citando Warhol, una porta d’accesso alla realtà-reality? Popolare a se stesso, nel senso di ritrovarsi improvvisamente, e senza avvisaglie, al centro di una condivisione. La parola reality fa correre immediatamente a significati retrivi, di ignoranza televisiva, dove si assurge per qualche secondo a luce incandescente regolata dall’auditel. Quello che viene rischiarato con la nostra poiesi sono quelle zone d’ombra, quella sopita resa che ci ha costretti a rintanarci dentro di noi, ad abdicare alle nostre stesse impronte. Non esistono luci ad effetto: palco e platea sono fusi insieme perché quello che avviene ad opera dei performer riguarda in modo intimo e ferocemente autentico chi è seduto…seduto, che resta poi l’unica remissività fisica concessa allo spettatore. Glossario e grammatica pop, i vostri testi ne sono intrisi. Citano gergo da chat oallafacebook,serie tv, cartoni animati…una realtà mediata dove la catarsi avviene attraverso serie tv e dove ci si racconta attraverso piattaforme virtuali. Dove finisce la scena e dove inizia la vita? La vita è una recita falsa, dove si viene rimessi continuamente in prova.Chi stabilisce se sia più organica la finzione, intesa come costruzione metamorfica del reale, o l’esistenza che ci attende fuori da noi? Ci vuole coraggio e una forza titanica per sorridere allo stemperarsi dei colori quando non li riassembliamo grazie all’uso morale delle nostre sinapsi. Avviene così che sia il palco a sciogliersi, diventare lava collosa che cola fuori dal teatro e invade i nostri percorsi. A causa di nudi integrali o di rimandi a rapporti omosessuali, molti vi accusano di oscenità, di pornografia. Cos’è pornografico? Pornografica è la testa di chi non si permette di aprire le serrature arrugginite del proprio Ego. Osceno è l’atteggiamento di certi ambienti critici dove la comprensione del valore semiologico del corpo, inteso come strumento polifunzionale di senso, viene svenduta a patina da cover magazine. Non a caso, la sordità di classificazioni simili verso il lavoro del nostro ensemble, identifica piuttosto la strada lunga per accogliere codici espressivi altri, che vengano rielaborati per trascendere il senso comune del pudore, zavorra codina che tira verso il basso dell’oscurantismo culturale. Fashion diventa così non il timbro per archiviare qualcosa di poco comprensibile per orizzonti recintati, ma virus che impedisce a quegli stessi etichettatori di sopravvivere al loro crepuscolo espressivo, nel tentativo fallibile di un riassetto monocefalo societario. Cito Emanuele Severino dal suo “Oltre il linguaggio”: “Se la violenza è la volontà che vuole l’impossibile, e se la volontà è essenzialmente un volere che qualcosa divenga altro da sé, allora – poiché il diventare altro da sé è qualcosa di impossibile – la volontà è, in quanto tale, il volere l’impossibile, e cioè la volontà è, in quanto tale, violenza”. Nei vostri lavori non mancano scene in cui si esprime una forte aggressività. Che rapporto avete con la violenza? Andrebbero distinti due tipi di violenza. Quella basata sulla sopraffazione dell’altro, che nasconde un bisogno di affermazione e ignoranza. E quella subliminale, giustificata, massificatrice. Entrambe sono propagazione dell’inquadramento piccolo borghese di un sistema complessivo in cui i bisogni vanno soddisfatti attraverso il possesso di cose o il riconoscimento degli altri. Senza ulteriori domande o dubbi di altra natura. La qualità percorribile nei nostri lavori è rabbia: non violenza ma grido di soccorso. Non si tratta di scimmiottare il cinema per épater la bourgeoisie ma di analizzare il pentagramma relazionale che si stabilisce nel momento in cui un gruppo prende posizione definendo lo schieramento di carnefice e vittima. Anche lo sguardo dello spettatore è chiamato a partecipare. E la reazione successiva può essere indicativa dello stadio di apatia o voluttà, verso l’oltraggio altrui, in cui ci troviamo. Nel vostro spettacolo “Grimmless”, la casa di Hansel e Gretel diviene scena di un delitto, con tanto di plastico alla Porta a Porta e Biancaneve è oggetto di psicanalisi. Le fiabe vengono demolite semplicemente immergendole nella realtà. Il tempo dell’entzweiung, delle scissioni bene/male, giusto/sbagliato è morto. La realtà semplificata del modello fiabesco è morta.Cosa possiamo raccontarci ora? Un battito di ciglia, un cenno di assenso, un colpo di pistola non producono più gli stessi suoni. Le favole in cui ci hanno tenuto a bagnomaria nell’infanzia hanno il sapore nauseante della mistificazione e sviluppano, per contrapposizione, la necessità pura di un principio categorico: attestare il proprio certificato di sana e robusta costituzione, fisica e morale. Non si attende nulla. Si reagisce, vomitando anidride carbonica e ipotesi di coscienza. Interessante è l’uso che fate della scarpa col tacco, simbolo di instabilità, della difficoltà di rimanere in piedi. Come si resta verticali oggi? Con fatica. I tacchi sono la radiografia di un callo che si è sviluppato sotto la nostra pianta, partendo dalla schiena e da una condizione prona in cui il cattolicesimo con i nostri sensi di colpa ci identifica. Lo sforzo è quello di poggiarsi su due torri gemelle e rialzarsi ad ogni nuovo giorno. L’equilibrio instabile di un tempo presente, il carnevale stucchevole a cui ci costringiamo, vengono amplificati da qualcosa che ormai ha geneticamente modificato la struttura ossea umana. Restare in cima a queste torture è una legge non scritta che definisce, nella paccottiglia di scambi sterili, chi è vincente e chi no. Scoprire la calzatura come parte di noi, e decidere di rigettarla come un trapianto di cuore suino è una guerriglia che conta più morti di qualunque scontro mondiale. Cosa ereditate di quello che avete negato/contestato/contrastato nel lavoro precedente? Il superamento delle verità assolute, la supremazia del dubbio, la volontà di incastonare tesi e antitesi in una sintesi espressiva e scoprire che è nel suo movimento di compattamento la vera turbina artistica, il moto rivoluzionario. Sul finire. In “Macadamia Nut Brittle” riproponete una dinamica da reality show con tanto di eliminazione. In seguito vengono elencati dei personaggi di fiction televisive, che nel corso della serie incontrano la morte. Qual’è il vostro rapporto con la fine? Costruttivo. Concreto. Spronante. I morti delle serie tv, i morti delle fiabe, i morti di un Paese cadavere attestano la differenza attraverso il respiro, e la sua mancanza. Muoio ogni giorno che vedo un sorriso zircone che mi offende. Muoio per l’incapacità di comunicazione autentica. Ma dopo, puntualmente, lo confermano la Chiesa e Disneyland, si risorge. Più motivati di prima. Per scoprire il gusto di questo perenne divenire. Continuons le combat.

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