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Tempi Moderni, siamo nella terza rivoluzione industriale?

«Crediamo che una società in cui ci si aiuta a vicenda sia migliore di una in cui ognuno va per conto proprio». Bill Clinton, knock-out speech
Secondo alcuni grazie alle moderne tecnologie siamo dentro alla terza rivoluzione
industriale, quella dove le Informazioni possiamo generarle in prima persona e farle girare
più rapidamente, dove tutto, anche l’energia, può essere considerato “condiviso”. Alle volte
ascoltando questi visionari mi sento nel futuro. Quel futuro che da bambina avevo visto
solamente in tv e che oggi sembra per certi versi già superato.
Al contempo però il futuro di oggi è molto diverso da quello che immaginavo da piccola. La
maggior parte delle informazioni che girano sulla rete o sui canali, chiamiamoli cosi
“democratici”-quelli dove ognuno dice la sua aspirando ad un’eguaglianza sociale e ad
un’autorevolezza di pensiero che non esistono ma che oggi, grazie a fan, followers o a
qualche altro guazzabuglio tecnologico è più facile scimmiottare- ha l’amaro sapore del
complotto, del buio senza speranza, dell’etica di proprietà esclusiva di pochi eletti che
scrivono non per cercare di salvare il mondo marcio che sta nei loro occhi ma per far
vedere che in un mondo dove i giganti non esistono, loro sono quelli che più
assomiglierebbero al Nessuno della mitologia. Gli Ulisse, quelli che fanno gli scemi per non
andare in guerra –ma che la guerra la fanno vincere-, i low profile insomma, oggi non
vanno più di moda.
In un contesto in cui l’informazione sembra estremamente disponibile, in cui la
sovraesposizione sembra un valore da perseguire e il concetto sessantottino dell’essere
alternativo è stato riassunto e assorbito in una cultura mainstream alla Steve Jobs o a
qualche movimento nostrano che manderebbe tutti a casa a fare la calza, l’impegno dei
“vecchi” credo debba essere quello di riuscire a trasferire ai giovani (o almeno a loro) il
senso critico, verso se stessi prima di tutto.
Mi sono accorta di quanto il mio mondo non sia più quello della generazione
immediatamente successiva alla mia quando, durante una chiacchierata di poco tempo fa
in mezzo a giovani neolaureati, ascoltavo le loro paure e la loro visione del mondo
lavorativo che (non) li aspetta dietro l’angolo: alla stessa età in cui io avevo la percezione di
essere arrivata finalmente all’inizio di quella scala in cui i miei genitori hanno dimostrato il
loro spessore e il loro valore, assumendosi la responsabilità di creare ricchezza per la
società civile e per “il mercato” e non vedevo l’ora di confrontare i miei muscoli giovani e
forti con le asperità della vita vera e far vedere quanto valevo, ecco, a quella stessa età
questi brillanti neolaureati hanno le paure e le disillusioni di chi ha visto già tutto, di chi si
è misurato col mondo e ha fallito.
Allora è questa l’altra faccia dei candidati che si presentano ai colloqui, o dei ragazzi che
inseriamo in azienda che si mostrano volenterosi e sicuri di loro stessi, quando non
saccenti e presuntuosi grazie agli investimenti in studi e master pagati dai loro genitori? È
l’assenza di prospettiva il prezzo che devono pagare gli eredi degli yuppies degli anni ‘80?
Qualche tempo fa volevo pubblicare delle riflessioni sul grande successo che stanno
riscontrando alcune trasmissioni televisive di self-help e di trasferimento di competenze di
base: dal come vestirsi per ogni occasione, come educare un cane o ristrutturare casa per
venderla in tempi più brevi o come riconoscere di essere affetti da una malattia con sintomi
che ci vergogniamo di comunicare anche al medico curante o migliorare il rapporto di
coppia ritornando a scuola di anatomia di base fino ad arrivare a come migliorare le
performance del genitore quando i figli ci riducono allo stremo delle forze.
L’aspetto interessante di questo successo è che, pur se con strumenti diversi, in Italia
continuiamo a perseguire l’imperativo di Cavour di fare “gli italiani”, dopo che era stata
”fatta l’Italia”. Il fil rouge che lega la quasi totalità delle trasmissioni di life style è centrata
sull’approfondimento: cioè sul costringere lo spettatore (o meglio, il soggetto della
trasmissione nel quale lo spettatore è portato a ritrovarsi) ad andare oltre la superficie
delle cose inchiodandolo alle proprie responsabilità: siamo noi a dover acquisire più
strumenti, noi a dover modificare atteggiamento sia con il cane aggressivo sia con il figlio
maleducato (mi perdonino la vicinanza quelli particolarmente sensibili alle differenze),
siamo noi a doverci mettere in discussione e in gioco se il rapporto di coppia non funziona,
noi che dobbiamo prendere coscienza della quantità di cibo che ingeriamo se abbiamo un
peso di gran lunga superiore a quello che vorremmo.. e via di seguito..
Ciò però che mi ha convinto che queste riflessioni avessero un legame stretto con il
management è stata la lettura dei commenti alla trasmissione che ha recentemente

debuttato su

Cielotv
, il canale sky del digitale terrestre: The Apprentice. Avevo avuto modo
di seguirne diverse puntate durante un soggiorno negli USA e ne ero rimasta entusiasta.
Avevo pensato, e lo penso ancora, che una figura dirompente e di successo come Donald
Trump forse sarebbe stata troppo per il pubblico italiano: il dito puntato che invita
l’aspirante apprendista a prendere la via dell’uscio con la perentorietà dell’americano


you’re fired!

(sei licenziato) è stato trasformata in un “sei fuori
” più digeribile per il popolo

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