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Il settore alimentare, seconda industria nazionale, è uno degli esempi del potenziale inespresso dell’italia.La domanda di prodotti salutistici e tradizionali di qualità, cosiddettispecialty food, nella definizione americana,è in costante aumento nei mercatimaturi e soprattutto in quelli emergenti,dove si affermano comportamenti “all’occidentale” nei consumatori che superano una certa soglia di reddito.Proprio nello specialty food, che presenta margini di profitto tra i più elevati,è collocabile buona parte del made in italy, e ciò per ragioni di qualità,reputazione,identità culturale/geografica, verietà dell’offerta e altre evidenziate dal primato di certificazioni, denominazione di origine e ricerche scientifiche a supporto dei prodottie dei loro benefici sulla dieta.La fotografia diFederalimentare del 2011 evidenzia un fatturato di 127 miliardi di euro, di cui23 dall’export, cresciuto a una velocità doppia rispetto al totale delle esportazioniitaliane nel decennio 2000/11.Per contro, più del 60% dell’export è realizzato in Europa, il mercato piùricco al mondo di prodotti tradizionali,dove i margini delle nostre imprese patisconola forza della distribuzione organizzata e della concorrenza. Quasi trequarti dell’export è realizzato da appena 1′ 1,5% delle imprese, quindi la stragrandemaggioranza delle pmi ha insistito sul mercato interno, contrattosi del 6%in un solo triennio.Le esportazioni italiane in Cina, uno dei mercati in cui i consumi di SpecialtyFood crescono più velocemente, sono state un ottavo di quelle francesi e circala metà di quelle tedesche (nel 2010, ma la situazione non è diversa nel 2011).La stessa Federalimentare evidenzia come la domanda globale «non soddisfatta» di prodotti made in Italy sia significativa: nel 2010 le contraffazioni(cioè le produzioni estere di specialità italiane) sono state stimate in circa 60miliardi di euro: più di tre volte l’export nazionale di quell’anno.Il recupero del 10-15% di queste false produzioni, nella fascia medio-alta dimercato, comporterebbe un aumento del 50% dell’export alimentare edequivarrebbe al fatturato di una multinazionale come Heinz o Coca-Cola,con la relativa ricaduta in termini di posti di lavoro. Non è un obiettivo facile, manemmeno una missione impossibile nel medio-lungo periodo (6-8 anni).Dalle analisi degli operatori di private equity e dalle serie storiche dei bilancidelle aziende alimentari emerge che la maggior parte delle imprese italianepresenta una redditività negativa o bassissima, spesso in peggioramento,quindi necessita di interventi di ristrutturazione operativa prima ancora chefinanziaria.Per superare il vincolo dimensionale e l’arretratezza organizzativa e strutturaledelle imprese, occorre consolidare interi segmenti di mercato oggi troppoframmentati. Solo così è possibile raggiungere una scala di grandezza tale dasostenere gli investimenti in marketing,distribuzione, ricerca e sviluppo necessaria soddisfare la domanda nei mercati più remunerativi e a stabilirvi una presenzadi mercato duratura. Ma con quali strumenti e quali risorse professionali,imprenditoriali e finanziarie?Quello alimentare è un settore in cui le competenze manageriali sono relativamentediffuse anche in aree come il marketing e la distribuzione, dove le nostreimprese sono notoriamente carenti, e ciò anche grazie alle scuole delle multinazionaliestere. La fase critica è quindi la prima:quella della ristrutturazione.Il private Equity è lo strumento utilizzato da oltre un ventennio da diverse organizzazioni internazionali e dai governi più avveduti anche in situazioni strutturali più complesse e in contesti più critici. Negli ultimi anni, anche in Italia il private equity è divenuto strumento di esercizio di una funzione pubblica (con capitali anche pubblici) attraverso soggetti privati come il Fondo Italiano e il Fondo Strategico.Le medicine che il private equity suggerisce sono le tecniche di turnaround nella fase di ristrutturazione, e il capitale di crescita nella fase successiva di crescita. Tuttavia mentre quest’ultima attività è relativamente diffusa nel private equity, la prima è merce rara. Un fondo o una società di investimento per la realizzazione del suddetto obiettivo deve agire anche con operazioni di turnaround,operando per singoli comparti dell’industria alimentare e puntando su imprese che possono fare da polo di aggregazione di altre micro-aziende dello stesso comparto. La nascita del Fondo Strategico testimonia la presa di coscienza, sul piano degli strumenti di politica industriale, della natura strutturale dei cambiamenti in atto; tale presadi coscienza non è però ancora avvenuta sul piano operativo, come dimostrato dal fatto che le imprese poco redditizie non sembrano tuttora rientrare nelle strategie e nei target di investimento di questi operatori. Nel testo «20 anni di Private Equity» (Aifi, Igea, 2006),indicai i vincoli allo sviluppo del turnaround,che allora appariva la nuova frontiera del private equity, forte dellariforma fallimentare e della congiuntura favorevole. Sei anni dopo, il turnaround resta un’attività marginale per i fondi chiusi, nonostante l’evidente necessità di ristrutturare comparti cruciali dell’economia, l’alto livello raggiuntoda crediti in sofferenza nel sistema bancario e il consolidarsi della giurisprudenza sulla riforma fallimentare (si veda il rapporto Pem e Aifi).Le ragioni citate allora restano in partevalide e la scarsità di professionisti con esperienza, specifica che sappiano valutare il rischio associato a questo tipo di operazioni (talvolta molto inferiore a quello percepito in genere) è un altro vincolo, naturale conseguenza di più diun decennio di eccessivo ricorso alla leva finanziaria. Ciononostante, la natura non congiunturale della crisi richiede di puntare una parte nelle scarse risorse disponibili su società di scopo cui assegnare obiettivi ambiziosi e fattibili, dotatedi visione strategica e competenze adatte a guidare le ristrutturazioni aziendali.
(riproduzione riservata)*docente master Lìuc
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