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LA NUOVA FIGURA DEL LAVORO A PROGETTO

 

1.1- INQUADRAMENTO SISTEMATICO DEL CONTRATTO DI LAVORO A PROGETTO

 

La normativa del lavoro a progetto ha una forte impronta antifraudolenta perché il numero dei rapporti di collaborazione continuativa e coordinata è aumentato in misura considerevole, ed essi molto spesso mascherano veri e propri rapporti di lavoro subordinato.

Tuttavia, allo stato, accanto al rapporto di collaborazione subordinata esiste anche una collaborazione continuativa e coordinata individuata da un progetto che deve essere determinato dal committente e gestito autonomamente dal collaboratore.

In questo contesto e con l’intento di soddisfare l’interesse dell’imprenditore alla temporaneità del vincolo contrattuale, il legislatore ha elevato al rango di tipo legale il lavoro a progetto.

La disciplina di questo tipo consente al committente di recedere ad nutum e in termini di costi previdenziali è assai meno onerosa del lavoro subordinato.

Nel contempo questo legislatore per scoraggiare gli intenti elusivi dell’imprenditore, ampiamente diffusi nelle precedenti collaborazioni continuative e coordinate, ha stabilito che questi rapporti instaurati senza l’individuazione di uno specifico progetto si considerano subordinati sin dalla costituzione.    

Tuttavia, non sembra che il progetto sia idoneo a realizzare l’obiettivo, perché lo stesso legislatore non ha chiarito cosa sia il progetto.

In realtà bisogna chiedersi se l’esistenza del tipo legale “lavoro a progetto”, al di là della sua valenza antifraudolenta, influirà sull’interpretazione dell’art. 2094 codice civile, e più precisamente se favorirà quell’interpretazione che identifica nel potere direttivo la scriminante della fattispecie lavoro subordinato, e quindi riduce la sua tendenza omnipervasiva a coprire ogni forma di collaborazione lavorativa.

Certamente, la coordinazione nel concreto svolgimento del rapporto non si distingue agevolmente dalla subordinazione, e tale inconveniente può essere attenuato ma non eliminato se si considera che dal punto di vista sistematico il lavoro a progetto, lungi dal costituire un tertium genus, è un sottotipo del contratto d’ opera.

Questa proposta di inquadramento sistematico, giustificata dal fatto che il lavoro a progetto presenta tutti i connotati del contratto di opera più altri ancora, ha il vantaggio di collocare, senza incertezze, nell’area del lavoro autonomo il rapporto di lavoro a progetto e, conseguentemente di applicare ad esso, per le parti non regolate, la disciplina del contratto d’opera. Risulta, dunque, definitivamente abbandonata la strada della tipizzazione di un tertium genus contrattuale, collocato in un’area intermedia tra il lavoro autonomo e il lavoro subordinato.

L’opzione concettuale di considerare il lavoro coordinato e continuativo come una forma di lavoro autonomo genuino, e dunque di prevenire un utilizzo improprio di tale figura, si è conseguenzialmente tradotta in un’operazione di politica legislativa volta a far transitare quanti più rapporti possibili dall’incerta area del lavoro c.d. grigio o atipico agli schemi del lavoro dipendente, opportunamente ampliati e diversificati in funzione di questo obiettivo di sostanziale rimodulazione delle tutele verso forme di flessibilità regolata e controllata coerente con l’evoluzione dei rapporti economici e sociali[1].

Pertanto, con la regolazione delle collaborazioni coordinate e continuative nella modalità a progetto, una variegata tipologia di rapporti di lavoro atipici e di difficile classificazione verrà ricondotta lungo i binari della legalità. Obiettivo questo che comporta una rigorosa azione di contrasto delle forme abusive e irregolari di utilizzo di questo schema contrattuale.

La nuova disciplina, infatti, cerca di delineare una trama di tutele sostanziali di base per i collaboratori coordinati e continuativi genuini, in ragione di un rapporto di lavoro che ancorché autonomo, può ingenerare situazioni di dipendenza socio economica nei confronti del committente, specie nei casi in cui la prestazione viene resa in regime di monocommittenza e per una durata considerevole.

Nel suo complesso, dunque, l’intervento sulle collaborazioni coordinate e continuative nella modalità a progetto è un’operazione coerente con le prospettive evolutive della materia prospettate nel Libro Bianco, in quanto il nucleo di tutele assegnato al collaboratore a progetto consente di adeguare il trattamento dello stesso ai principi minimi di civiltà giuridica, soprattutto con riguardo alle ipotesi in cui sia più intensa la sua posizione di dipendenza socio-economica in forza, ad esempio della pattuizione di un rapporto di esclusiva.

Siamo in ogni caso ben lontani dal registrare un processo di progressivo avvicinamento delle collaborazioni coordinate e continuative al lavoro subordinato. L’esiguità della disciplina di tutela del collaboratore coordinato e continuativo, che è e resta sul piano giuridico un lavoratore autonomo, e la rigorosa azione di contrasto alle collaborazioni fittizie depongono semmai nel senso contrario.

 

2 – L’ART. 409, Numero 3, codice procedura civile COME DATO NORMATIVO DI RIFERIMENTO DEL LAVORO A PROGETTO

 

La disciplina del lavoro a progetto contenuta negli artt. 61 – 69 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, può considerarsi l’epilogo normativo di un intenso dibattito, intervenuto nel corso degli ultimi trenta anni in dottrina e anche a livello di politica legislativa, sull’opportunità o meno di individuare un’autonoma fattispecie per i rapporti di lavoro autonomo continuativo.

D’altra parte, lo stesso art. 61 richiama i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di cui all’art. 409 codice procedura civile, confermando così la stretta derivazione della nuova figura del lavoro a progetto dalla categoria dei rapporti menzionati dalla norma processuale.

Questa disposizione rubricata “Disciplina delle controversie individuali di lavoro e delle controversie in materia di assistenza e previdenza” annovera fra le controversie individuali di lavoro anche quelle che originano da …. ”rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato”.

Il significato dell’art. 409 numero 3 codice procedura civile, va ravvisato nella sottrazione dall’area del lavoro subordinato tipico di una serie di rapporti di lavoro che, sociologicamente possono essere considerati atipici, e che giuridicamente possono essere qualificati come rapporti di lavoro dedotti in schemi contrattuali diversi dal rapporto di lavoro subordinato generato da un contratto atipico.

La mancanza del vincolo della subordinazione caratterizza il rapporto di lavoro parasubordinato.

Il legislatore ha inteso, infatti, tenere conto della particolare affinità di alcune situazioni del lavoro autonomo con quelle del lavoro dipendente, tale da giustificare l’estensione al primo di alcune tutele processuali, proprie di quest’ultimo.

All’omologazione sul piano processuale del lavoro c.d. parasubordinato al lavoro subordinato, corrisponde l’estensione ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di talune garanzie poste a tutela del lavoratore dipendente, in ragione dell’affinità ontologica fra le due figure.

Infatti, il rapporto di lavoro parasubordinato caratterizzato dalla prestazione d’opera continuativa e coordinata, nonché prevalentemente personale, e che costituisce pur sempre un’ipotesi di lavoro autonomo, si differenzia dal lavoro subordinato per la mancanza, appunto, del vincolo di subordinazione.  

Gli elementi costitutivi di un rapporto parasubordinato sono rinvenuti dalla Corte di Cassazione nella continuità, nella coordinazione e nel carattere prevalentemente personale della prestazione di lavoro, non costituisce, invece, elemento essenziale lo stato di debolezza contrattuale del lavoratore.

La dottrina e la giurisprudenza, nel corso dell’ultimo trentennio, si sono impegnate per chiarire, in primo luogo, il significato giuridico dei caratteri della prestazione e cioè la continuità, la coordinazione e il carattere prevalentemente personale e in secondo luogo precisando l’oggetto della prestazione.

Quanto all’oggetto si deve osservare che il termine opera a rigore, dovrebbe essere inteso come opus, ma la giurisprudenza, anche in ragione della continuità che connota l’opera, ha riferito indifferentemente questo termine non solo all’opus ma anche alle operae.

In altri termini la prestazione di opera continuativa di cui all’art. 409 n. 3, codice procedura civile, può avere come oggetto, secondo la giurisprudenza, sia l’esecuzione dell’attività del collaboratore, sia l’esecuzione di più opere, ossia di risultati collegati da un nesso di continuità.

La Corte di Cassazione ha ravvisato l’elemento della continuità, allorché, si sia in presenza di un rapporto di durata, come quello implicante attività di collaborazione per un certo periodo di tempo e per un numero indeterminato di prestazioni professionali in base alle direttive di un soggetto che organizza e coordina le prestazioni dei vari collaboratori autonomi, assumendo nei loro riguardi una posizione di preminenza economica, paragonabile a quella del datore di lavoro.

La Suprema Corte ha, inoltre, chiarito che il requisito della continuità ricorre quando la prestazione lavorativa implica una reiterazione delle prestazioni lavorative, ovvero quando il rapporto non si esaurisce con l’esecuzione di una prestazione occasionale ma importi un insieme di prestazioni che, nel complesso possono essere considerate come un’unica collaborazione, tendente a soddisfare un interesse duraturo del committente più ampio di quello derivante dal singolo adempimento.

Ai sensi dell’art. 409, n. 3, codice procedura civile, la prestazione lavorativa oltre che continuativa deve essere coordinata. Secondo la giurisprudenza, il requisito della coordinazione mette in evidenza il profilo organizzativo del rapporto di collaborazione ed indica il collegamento funzionale tra l’attività del prestatore d’opera e quella del committente. Tuttavia, il suddetto collegamento funzionale si realizza in modo diverso nei rapporti di lavoro in cui la prestazione sia coordinata e nei rapporti di lavoro in cui essa sia subordinata.

Infatti, nel lavoro subordinato si realizza attraverso l’esercizio del potere direttivo configurato come potere del datore di lavoro di conformazione della prestazione dovuta, e potere di determinare unilateralmente le modalità di esecuzione della prestazione  mentre, nel lavoro coordinato, tale collegamento si realizza soltanto attraverso l’esercizio del potere del committente di conformazione della prestazione dovuta.

Si può dire che tra potere direttivo del datore di lavoro nel rapporto di lavoro subordinato, e potere di coordinamento del committente nel lavoro coordinato sia riscontrabile sul piano teorico una differenza di ordine qualitativo, e tuttavia, nel concreto svolgimento del rapporto, la suddetta differenza di ordine qualitativo tra i due poteri può sfumare in una differenza di ordine quantitativo, sicchè diventa difficile, in questi casi, per il giudice individuare la linea di confine tra lavoro subordinato e lavoro coordinato.

Infine, il carattere prevalentemente personale della prestazione va inteso nel senso che il prestatore di opera può avvalersi di collaboratori, ma l’apporto degli stessi deve risultare suvvalente rispetto allo svolgimento personale della sua prestazione di lavoro.

In particolare, la valutazione del giudice deve tenere conto non solo del numero dei collaboratori ma anche della natura meramente esecutiva e secondaria delle prestazioni svolte da questi ultimi.

 

3- IL LAVORO A PROGETTO

 

Dal 24 ottobre 2003, data di entrata in vigore del Decreto Legislativo numero 276/2003, l’ordinamento giuridico ospita una nuova forma contrattuale denominata “lavoro a progetto” presentata dal Governo come il principale rimedio contro l’abuso delle collaborazioni coordinate e continuative.

Secondo gli estensori della riforma il nuovo istituto costituirebbe la “pietra angolare” della normativa, e sarebbe in grado di “fare pulizia delle finte Co. Co. Co.” eliminando “quelle forme di precarietà e flessibilità improprie, che hanno sino ad oggi pesantemente distorto e inquinato la concorrenza tra imprese a scapito delle tutele di chi lavora”.

Alla normativa del lavoro a progetto sono destinati gli artt. 61- 69, Titolo VII, capo I del decreto legislativo n. 276/2003. In base alla norma di apertura, nella quale è contenuta la definizione e il campo di applicazione della disciplina, “i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa prevalentemente personali e senza vincoli di subordinazione di cui all’art. 409 numero 3, codice procedura civile  devono essere riconducibili a uno più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato, nel rispetto del coordinamento con l’organizzazione del committente e indipendentemente dal tempo impiegato per l’esecuzione dell’attività lavorativa”.

Purtroppo, però, il testo normativo non brilla per chiarezza né nell’individuazione della fattispecie né nella previsione delle sanzioni.

Quanto alla nuova fattispecie, il primo problema deriva dal fatto che l’art. 61, comma I, non si limita ad individuare i connotati del lavoro a progetto, ma li innesta sui rapporti di collaborazione continuativa e coordinata prevalentemente personale senza vincolo di subordinazione di cui all’art. 409, numero 3, codice procedura civile.

Questo innesto non risulta sempre riuscito e coerente perché, talvolta, i dati identificativi della nuova fattispecie risultano in contrasto con i caratteri dei rapporti di collaborazione di cui all’art. 409 codice procedura civile; sicchè allo stato la figura del lavoro a progetto risulta assai controversa per l’esistenza di interpretazioni contrastanti, che possono essere grosso modo ordinate secondo due indirizzi interpretativi.

Secondo il primo la nuova fattispecie è inclusiva e cioè ricalca sostanzialmente quella dell’art. 409, n. 3, codice procedura civile con l’aggiunta del progetto.

I fautori del secondo orientamento ritengono che la fattispecie sia esclusiva, tendendo di valorizzare i connotati del lavoro a progetto al fine di distinguerlo dalle collaborazioni continuative e coordinate già esistenti, in coerenza con la funzione antifraudolenta della nuova disciplina.

La ratio perseguita dalla nuova disciplina è duplice: da un lato, la restituzione di trasparenza al mercato, attraverso l’eliminazione dell’utilizzo fraudolento delle collaborazioni coordinate e continuative, d’altro lato la “graduazione delle discipline”, realizzata attraverso una parallela graduazione delle fattispecie, lavoro autonomo, lavoro parasubordinato e a progetto, lavoro subordinato, onde riuscire a dotare qualsiasi forma di lavoro di un minimum di tutela, via via crescente a seconda del grado di inserimento del lavoratore in azienda. Invero, fino ad oggi, all’interno di quel trittico poteva ritenersi raggiunto un equilibrio affidato a meccanismi spontanei di autoregolamentazione, grazie, in particolare, alle fattispecie “aperte” del lavoro parasubordinato e del lavoro autonomo che rappresentavano una reciproca valvola di sfogo, nel senso che ciò che non era parasubordinato , era autonomo, e viceversa.

Lo scenario post-riforma si presenta, invece dominato da fattispecie che operano in modo inclusivo, vale a dire sulla base di requisiti positivi, per cui non è più possibile sostenere che ciò che non rientra nell’una può rientrare nell’altra; ovvero che è sufficiente che non ci siano gli indici della subordinazione per aversi autonomia o parasubordinazione e viceversa.

 

4- I requisiti identificativi della nuova fattispecie:IL PROGETTO

 

Tra i requisiti aggiuntivi, rispetto a quelli indicati dall’art. 409, numero 3, codice procedura civile, campeggia il progetto e il programma.L’esistenza di uno specifico “progetto o programma di lavoro o fase di esso” rappresenta il contrassegno di genuinità dell’autonomia del rapporto richiesto dal legislatore, in assenza del quale, alla stregua dell’art. 69, decreto legislativo n. 276/2003, il rapporto si considera subordinato a tempo indeterminato. Del progetto o programma si sono fornite due interpretazioni, l’una forte e restrittiva, l’altra debole e estensiva.

La prima è stata elaborata nel momento immediatamente successivo all’emanazione del decreto  decreto legislativo  276/2003, alla sua stregua, il progetto deve essere connotato da una ideazione ovvero da un contenuto creativo ed eccezionale, non riconducibile ai normali assetti produttivi aziendali.

Più sdrammatizzante, la seconda lettura, per cui il progetto costituisce una mera modalità organizzativa della prestazione, una specie di “contenitore” all’interno del quale la prestazione deve essere eseguita.

In tal senso si è espressa, oltre che autorevole parte della dottrina, la circolare Ministero del Lavoro n. 1/2004, oggetto del progetto può essere qualsiasi attività, anche ordinaria, connessa all’attività principale o accessoria dell’impresa, che risulti ben identificabile sulla base di un risultato, che a sua volta può configurarsi come finale o parziale.

Dalla lettera dell’articolo 67 del decreto risulta che il progetto, il programma o la fase di esso costituiscono l’oggetto del contratto, nel senso che il progetto, pur essendo determinato dal committente, è dedotto in contratto e perciò deve essere approvato dalle parti con una clausola apposita (art. 62, comma 1, lettera b).

Esso quindi è parte integrante del contratto, e il documento che lo contiene, di norma, è allegato al contratto ai fini della prova. Attraverso la definizione del “progetto, programma di lavoro o fase di esso” si richiede, infatti, alle parti contrattuali di esplicitare nella fase di costruzione del programma negoziale le modalità con le quali il risultato dedotto in obbligazione deve essere autonomamente realizzato dal collaboratore e, in particolare, le forme di coordinamento, anche temporale, del lavoratore a progetto al committente nella fase di esecuzione del contratto.

In altri termini, l’oggetto del contratto, e in particolare la prestazione lavorativa eseguita in autonomia, deve essere sin dall’inizio precisata nelle sue caratteristiche specifiche e nelle concrete modalità esecutive in funzione del risultato e indipendentemente dal tempo necessario per il suo raggiungimento.

Si tratta ora di stabilire, se il lavoro a progetto comporti a carico del collaboratore l’adempimento di un obbligazione di mezzi o di risultato. L’articolo 61, stabilisce che il progetto è gestito autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato; il riferimento esplicito al risultato, induce a ritenere preferibile la seconda tesi.

Se, dunque, l’obbligazione del lavoratore a progetto è un obbligazione di risultato, il nuovo contratto non ha per oggetto il lavoro in sé per sé considerato, ossia l’attività o il comportamento del prestatore di lavoro, ma un’attività qualificata da un risultato.

A conferma di questa tesi soccorre anche l’articolo 62. La disposizione, infatti, prevede clausole apposite e distinte per il progetto, che deve essere dedotto in contratto nel suo contenuto caratterizzante (articolo 62, lett. b), e per le forme di coordinamento del lavoratore a progetto al committente ossia per le modalità di esecuzione della prestazione .

Se ne deduce che al progetto compete indicare le caratteristiche dell’opus o del servizio e non anche le modalità di esecuzione della prestazione lavorativa.

D’altra parte, è opportuno osservare che nel caso in esame il riferimento all’obbligazione di risultato serve ad identificare l’oggetto dell’obbligazione del lavoratore a progetto, che si concreta in un’attività qualificata da un risultato, pertanto, non rileva giuridicamente lo svolgimento diligente del lavoro in sé per sé considerato, ma il compimento o meglio il completamento del servizio, che avendo un inizio e necessariamente una fine di esecuzione, ha una sua indivisibilità, unità e identità. Così, in coerenza con il dato normativo che prevede l’estinzione dell’obbligazione alla realizzazione del progetto, se il progetto non si realizza, dovrà essere il collaboratore a dimostrare che la mancata realizzazione non deriva da una causa a lui imputabile.

Solo nei limiti in cui riesce a fornire detta prova, egli sarà esonerato dalla responsabilità per inadempimento e, anzi, ai sensi dell’art. 2228 codice civile, avrà comunque diritto ad un compenso in relazione all’utilità della parte di opera eventualmente compiuta.

In conclusione, la determinazione del progetto da parte del committente non può risolversi né in un generico programma aziendale né in un’asettica e preventiva descrizione del contenuto e delle modalità di esecuzione della prestazione, ma deve indicare il risultato e perciò le caratteristiche dell’opus o del servizio o degli opera o servizi che il lavoratore si impegna a realizzare.

A fronte del requisito della specificità che, ai sensi dell’art. 61 del decreto n. 276, deve connotare il progetto è stato sostenuto che la prestazione lavorativa diretta a realizzare il progetto, non dovrebbe rientrare tra quelle normalmente svolte dai dipendenti del committente.

L’eccezionalità del progetto, tuttavia, non può essere desunta, in mancanza di altri elementi, dal solo carattere della specificità, perché “specifico” non significa anche necessariamente “eccezionale”.

Il progetto è specifico quando individua chiaramente il risultato produttivo da realizzare in tutte le sue caratteristiche, ma ciò non consente anche di affermare che l’opera realizzata debba essere di natura diversa dai normali risultati produttivi dell’azienda committente.

È certamente vero che la diversa conclusione, appare in linea con la finalità antifraudolenta del Decreto 276/2003, ma occorre anche rilevare che i rischi di elusione connessi alle tradizionali collaborazioni coordinate e continuative sono, invece, destinati a diminuire quando si fa riferimento al contratto di lavoro a progetto. Questo, infatti, al contrario di quelle, richiede precisi requisiti formali e sostanziali, tra l’altro assistiti da un apparato sanzionatorio molto incisivo. L’art. 61 menziona accanto al progetto specifico, anche il programma e la fase.

Fermo restando che sia il programma che la fase, come il progetto, costituiscono l’oggetto del contratto, è necessario accertare se i due termini progetto e programma abbiano una funzione diversa. Qualche interprete propende per la soluzione negativa affermando che i due termini si colorano a vicenda.

In realtà, un enunciato normativo non dovrebbe contenere sinonimi, e pure bisogna riconoscere che non è agevole individuare una differenza funzionale tra il progetto e il programma.

Dal dato normativo si evince che il progetto deve essere specifico, mentre questo attributo non è riferito al programma, conseguenzialmente, si potrebbe sostenere che il progetto per la sua specificità si caratterizza rispetto al programma, per la singolarità dell’opus o del servizio.

Viceversa, il programma potrebbe avere come oggetto una pluralità di opera o la reiterazione di un medesimo opus per un determinato tempo, e potrebbe riguardare una serie di opera o servizi, integrativi anche in termini di orario, di prestazioni normalmente svolte dai prestatori dell’impresa committente.

Infine,dovrebbe escludersi la rinnovazione del contratto a progetto per la specificità del medesimo, mentre si potrebbe ammetterne la rinnovazione se il contratto fosse a programma.

Come si è detto il testo normativo non consente di assegnare significati certi e diversi ai due termini, con la conseguenza che sarà la giurisprudenza a stabilire, non solo il significato e la funzione del progetto specifico e del programma, ma anche l’eventuale diversità di funzioni.       

 

5-LA SPECIFICITÁ DEL PROGETTO NELLA GIURISPRUDENZA DI MERITO

La dottrina nell’analizzare l’istituto del lavoro a progetto si è a lungo dibattuta nella ricerca semantica del diverso significato dei termini progetto e programma.

In merito erano emerse due linee interpretative divergenti: per la prima, il programma/progetto dovrebbe presentare caratteristiche di originalità, individuabile in un contenuto ideativo; mentre per la seconda, esso potrebbe invece avere ad oggetto la realizzazione di qualsiasi opera e servizio, purchè svolte in modo autonomo e non subordinato.

Nell’ambito della definizione e differenziazione tra le nozioni di progetto e programma, si è sostenuto che il primo sarebbe caratterizzato per la sua funzionalità ad un risultato finale cui il collaboratore partecipa direttamente con la sua prestazione, ed il secondo per la produzione di un risultato solo parziale destinato ad essere integrato, in vista di un risultato finale, da altre lavorazioni e risultati parziali.

In ambedue le accezioni, il risultato diventa un fattore chiave che rende ragione dell’autonomia gestionale del progetto o del programma di lavoro, sia nei tempi sia nelle modalità di realizzazione, e ciò perché l’interesse del creditore è relativo al perfezionamento del risultato convenuto e non, come avviene nel lavoro subordinato, alla disponibilità di una prestazione di lavoro eterodiretta.

Il progetto, allora, deve essere dotato di una sua compiutezza e autonomia ontologica realizzato dal collaboratore con la propria prestazione e reso all’impresa quale adempimento della propria obbligazione, di un’obbligazione ad adempimento istantaneo seppure a esecuzione prolungata nel tempo, volta alla realizzazione di un bene o servizio in vantaggio del committente.

Questa proposta dottrinale, ha così sostenuto che il progetto dovrebbe consistere in una ideazione per lo più accompagnata da uno studio relativo alle possibilità di attuazione o di esecuzione determinato unilateralmente dal committente, e pertanto esso dovrebbe essere specifico e riguardare un opus o un servizio ben individuati.

Parte della giurisprudenza, invece, mostra adesione alla tesi secondo cui, manca una significativa differenza tra i due concetti, costituendo la locuzione una endiadi, con la quale il legislatore richiede alle parti la predisposizione e l’esposizione di un piano ben identificato e definito che indichi un’azione  o un’attività che si intende realizzare e che diventa oggetto della prestazione del collaboratore autonomo.

Ciò che viene richiesto al committente è di esplicitare ex ante, in forma scritta, l’obiettivo che l’azione si prefigge di raggiungere, che può anche riguardare un’attività rientrante nel normale ciclo produttivo, ed il risultato della prestazione richiesta al collaboratore, che deve essere necessariamente funzionalizzata a quell’obiettivo; non viene, invece, richiesto che il progetto abbia ad oggetto un’attività altamente specialistica o di particolare contenuto professionale, e tanto meno che sia unica e irripetibile.

In senso contrario si è espressa la Corte di appello di Firenze con la recente sentenza del 29/01/2008, n. 100. Nella sentenza in esame la Ko S.p.A impugna la sentenza del tribunale di Arezzo  che ha respinto l’opposizione da essa proposta al verbale di accertamento in data 22 novembre 2005 con cui l’Inps, disconoscendo la natura di co.co.pro. di due contratti, affermava la natura subordinata dei rapporti. 

La società ribadisce l’esistenza di progetti per l’organizzazione e lo sviluppo all’interno dei supermercati gestiti del banco vendita macelleria e carni fresche, quindi, richiama la circolare n. 1/2004 del Ministero del lavoro, con cui viene fornita l’interpretazione delle previsioni di legge e si chiarisce da un lato che la richiesta della forma scritta è da intendersi ad probationem e non ad substantiam, e critica la decisione gravata per non avere ammesso la prova contraria alla presunzione semplice dell’esistenza in caso di assenza di progetto di altro rapporto di lavoro autonomo, citando al proposito precedenti giurisprudenziali.

Conclude, pertanto, per la riforma della decisione appellata e per la declaratoria che i signori Nu. e Ca. hanno prestato in suo favore prestazioni di natura autonoma in base al contratto di collaborazione a progetto stipulato e che nulla è dovuto all’Inps di quanto preteso con il verbale di accertamento impugnato.

La Corte di Appello ha ritenuto l’impugnazione infondata, confermando di conseguenza la sentenza del Tribunale di Arezzo, essendo il verbale di accertamento dei funzionari Inps, corretto nella valutazione in fatto e legittimo riguardo alla interpretazione giuridica della fattispecie.

La Corte ha, infatti, sostenuto che il contenuto caratterizzante il c.d. contratto di lavoro a progetto, richiede un effettivo progetto, inteso come genuino apporto del prestatore di lavoro al committente di una capacità specialistica, di una collaborazione anche particolarmente circoscritta ad un segmento distinto della sua ampia organizzazione produttiva per la soddisfazione di esigenze particolari e puntuali dell’andamento del ciclo di produzione ovvero anche in occasione di riassetto/miglioramento di esso.

Si richiede, che il progetto deve perseguire il raggiungimento di un obbiettivo particolare da attingere attraverso la collaborazione del prestatore e la sua attività consulenziale, ossia con un peculiare apporto ideativo, mentre il programma rimanda in maggior misura ad attività chiamate a realizzare una nuova modalità organizzativa e temporale della struttura del committente.

Con specifico riferimento all’identificazione del progetto, la sentenza ha sostenuto che il contenuto progettuale richiede un apporto al committente di una capacità specialistica che possa soddisfare esigenze particolari e puntuali dell’andamento del ciclo di produzione, o di riassetto/miglioramento di esso.

Secondo questa particolare accezione, il progetto deve pertanto risultare funzionale al raggiungimento di un particolare obiettivo tecnico, da perseguire attraverso un intervento del collaboratore, chiamato a svolgere una attività consulenziale caratterizzata da uno specifico apporto ideativo: mentre la nozione di programma si attaglia ad attività destinate a realizzare una nuova modalità organizzativa e temporale della struttura del committente. Ambedue sono pertanto caratterizzate da un significativo, contenuto creativo, destinato a qualificare l’opera consulenziale.

La sentenza in esame ha essenzialmente ritenuto necessario per il riconoscimento del contratto a progetto, la rilevazione di un elemento di specialità inteso come eccezione al principio di normalità, a sua volta identificabile  in un genuino apporto del prestatore di lavoro al committente di una capacità specialistica, funzionale al raggiungimento di un obiettivo particolare da attingere attraverso la collaborazione del prestatore e la sua attività consulenziale, con un peculiare apporto ideativo.

In sostanza, ai requisiti tipici della specificità dell’incarico, e della temporaneità della relativa esecuzione la sentenza ha sostanzialmente aggiunto/sostituito quelli della specialità del contenuto ideativo dell’apporto.

La sentenza richiede che il conferimento dell’incarico debba rivestire uno specifico e sofisticato contenuto intellettivo/ideativo, caratterizzato da un apporto innovativo rispetto agli strumenti organizzativi o alle tecnologie già in uso nell’impresa committente.

In questi termini, l’Appello fiorentino si è posto in radicale contrasto con la diffusa linea giurisprudenziale che da tempo aveva invece sostenuto che il progetto o programma di lavoro richiedesse essenzialmente l’individuazione di un’attività espletata con caratteristiche di autonomia e come tale funzionale ad un risultato, riservando, alla magistratura il compito di verificare: a) che l’obbligazione (la prestazione d’opera) sia effettivamente riconducibile ad un opus (concordato dalle parti e dedotto nel contratto) b) che l’attività descritta nel progetto sia coerente rispetto a quel risultato.

Al committente è, pertanto, richiesto di determinare preventivamente in modo puntuale l’ambito nel quale la prestazione deve svolgersi e l’obiettivo cui la stessa è funzionalmente collegata, oltre alle modalità con cui deve essere resa e, in particolare, alle relative forme di coordinamento.

Tuttavia, da nessuna disposizione normativa è dato ricavare l’ulteriore esigenza che questo incarico debba rivestire un particolare contenuto ideativo, né implicare un apporto innovativo rispetto all’organizzazione interna. In effetti, la diversa accezione proposta dalla Corte fiorentina sembra voler adombrare nel progetto una sorta di contenuto inventivo, non solo difficilmente compatibile con la diffusione del know how ormai acquisito nel mercato globalizzato, ma a maggior ragione addirittura incompatibile con gli elementi strutturali tipicamente pertinenti sia ad un progetto, ed ancor più ad un programma.

È così che ad una nozione onnicomprensiva di progetto e programma di lavoro, si affiancano i requisiti che lo stesso deve necessariamente contenere: la specificità e la temporaneità.

La legge non richiede solo che il progetto esista, ma anche che sia specificatamente individuato nel contratto: l’articolo  61 del Decreto legislativo n. 276 del 2003 parla espressamente di riconducibilità “a uno o più progetti specifici …”, mentre il successivo articolo 62 , sub b), esige che il contratto di lavoro a progetto, o fasi di esso, individuata nel suo contenuto caratterizzante…”.

La giurisprudenza di merito si è più volte soffermata sulla necessità che il progetto sia specifico, non ritenendo ad esempio di riscontrare il requisito nel caso in cui lo stesso non venga indicato in modo puntuale, o si concretizzi nella mera descrizione delle mansioni del lavoratore, le quali non consentono di delimitare l’obiettivo aziendale per il quale il collaboratore è stato assunto.

A riguardo, parte della giurisprudenza attribuisce al progetto la funzione di indicare segmenti dell’attività organizzata dal committente ben identificati e definiti sia sotto il profilo strutturale che temporale, consentendo la stipulazione di contratti a progetto solo in presenza di situazioni produttive particolari e teleologicamente individuate, anche se non necessariamente uniche e irripetibili.

Pertanto, pur volendo interpretare in termini estensivi la norma, il progetto non può coincidere con l’attività aziendale, semmai con parte di essa. In merito alla mancata individuazione del progetto altra sentenza ritiene che si debba intendere “sia la mancata indicazione formale del contenuto del progetto o programma nel contratto sia la mancanza, in concreto, di questi ultimi, per mancata corrispondenza dell’attività di fatto svolta a quanto previsto dal contratto”. Altra sentenza ancora sostiene che il progetto deve caratterizzarsi per la specificità, dunque, “l’organizzazione aziendale deve distinguersi dall’attività del collaboratore che ad essa si rapporta” (Trib. Torino, 15 aprile 2005).

Tale ultima sentenza segnala che si può stipulare un contratto di lavoro a progetto anche per attività lavorative che non hanno carattere specialistico o di elevato contenuto professionale, ma avverte che in quanto tale questo contratto non può “riguardare prestazioni eventualmente identiche a parte dell’attività aziendale”. E ciò nel senso che, sebbene non si debba necessariamente giungere ad “individualizzare” il progetto per ogni singolo collaboratore che operi sul medesimo contesto produttivo, commerciale o di servizio, non è parimenti accettabile quella standardizzazione di contratti in tutto e per tutto identici fra loro che finisce per svilire la necessaria “specificità” del progetto richiesta dalla norma.

Nella costruzione del contratto a progetto, pertanto, tenendo conto delle indicazioni fornite dai giudici di merito, il Committente o Datore di Lavoro dovrà aver cura di riempire di contenuto il progetto, mediante una chiara specificazione dell’attività negoziata, dalla quale si possa agevolmente distinguere l’oggetto del contratto rispetto al più generale ambito operativo del committente, differenziando, inoltre, lo specifico campo di azione dei singoli progetti che vengano affidati, contestualmente, a più collaboratori, finalizzando distintamente i diversi profili di attività affidati a ciascun collaboratore.

Sarà, infatti, esclusiva cura del committente, secondo il dettato normativo del D. lgs. n. 276/2003, e non del collaboratore, individuare e determinare quel contenuto caratterizzante che rappresenta l’oggetto del contratto di collaborazione prescelto: il tipo di apporto professionale o lavorativo che occorre al datore di lavoro e alla sua realtà organizzativa è conosciuto e desiderato solo dal committente.

Tant’è che stipulato il contratto, il committente non può richiedere una prestazione lavorativa che sia esulante o esorbitante rispetto a quanto dedotto nel progetto, essendo egli del tutto privato dei poteri direttivi e organizzativi che soli consentono al datore di lavoro del lavoratore subordinato, di modificare e determinare in qualsiasi momento il contenuto della prestazione lavorativa che può esigere dal dipendente.

L’elemento della specificità del progetto è, inoltre, al centro di altra recente pronuncia del Tribunale di Modena del 19 aprile 2006.

Secondo il Tribunale di Modena, la funzione propria del progetto sarebbe quella di delineare il risultato richiesto al collaboratore. Individuando nel risultato il requisito tipizzante del lavoro a progetto, formalizzato e delimitato in contratto, ne consegue per il Tribunale di Modena, che esso non deve essere generico, ma dotato di una sua compiutezza e autonomia, anche in quanto distinto dal risultato finale dell’impresa.[2] 

La caratteristica pregnante del progetto sarebbe la specialità intesa come eccezione al principio di normalità.

Il risultato resta ciò che il collaboratore deve sempre tener presente nel realizzare il proprio lavoro, in base ad un progetto gestito autonomamente dal collaboratore.

Parlare di collaborazione in funzione del risultato, significa sostenere che esso non potrebbe mai essere quello aziendale, ossia quello cui tende l’organizzazione del committente quale interesse finale dell’impresa.

Il risultato, cui deve tendere l’agire del collaboratore, deve restare quindi sempre quello specificato in progetto e “ dotato di una sua compiutezza e autonomia ontologica realizzato dal collaboratore con la propria prestazione reso all’impresa quale adempimento della propria obbligazione, oggetto di un obbligazione ad adempimento istantaneo seppur ad esecuzione prolungata nel tempo, volta alla realizzazione di un bene o servizio in vantaggio del committente”.

 

Cass. Civ. sez. lav. 18 febbraio 1997, n. 1459.

Cass. Civ. sez. lav. 23 novembre 1988 n. 6928.

Cass. Civ. sez. lav. 18 febbraio 1997, n. 1459.

Cass. Civ. 4 ottobre 1978, n. 4410.

Cass. Civ. 20 agosto 1997, n. 7785, in Foro it. Rep., 1997 n. 49.

F. Carinci, Commentario al D. Lgs. 10 settembre 2003 n. 276,  vol.  II, Milano, 2006.

M. Miscione, Il collaboratore a progetto, in Lav. e giur., 2003, 812.

E. De Fusco, L. Cacciapaglia, P. Pizzuti, Le collaborazioni dopo la riforma del mercato del lavoro, in Guida al Lavoro, n. 42/2003.

G. Proia, Lavoro a progetto e modelli contrattuali di lavoro, in  Arg. Dir. Lav., 2003.

Cfr. l’art. 69, comma 1°, del d. lgs. 276/2003.

E.Ghera, Sul lavoro a progetto, in Riv.it.dir.lav,2005,I,193.

M. Delle Donne, Lavoro a progetto; definizione e differenziazione delle nozioni di progetto, programma, fase nelle pronuncie giurisprudenziali, in Mass. Di Giur.del Lav, 2008.

P. Capurso, Patologia del lavoro a progetto, in Il lavoro nella giurisprudenza, vol. I, 2007.

Cons. Stato 3 aprile 2006, n.1743, per il quale “è il risultato che si pone al centro del tipo normativo”; Trib. Milano, 13 ottobre 2005; Trib. Milano 2 agosto 2006.

M. Papaleoni, Lavoro a progetto:  nozione e regime sanzionatorio, nota a sentenza in Corte di Appello n. 100 del 29 gennaio 2008, in Massimario di giurisprudenza del lavoro, ottobre 2008 n.10.

Trib. Piacenza, 15 febbraio 2006, in Il lavoro nella giurisprudenza, 2006, 885.

Trib. Genova, 7 aprile 2006, in, Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale, vol. II, 2007, con nota di Micaela Vialetti. 

P. Rausei, Contratto a prova di ispezione, in op. cit.

Tribunale di Modena ordinanza 19 aprile 2006.

G. Santoro Passarelli, La nuova figura del lavoro a progetto, in Aa. Vv., Diritto del lavoro – I nuovi problemi, Padova, 2

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Cass. Civ. 20 agosto 1997, n. 7785, in Foro it. Rep. , 1997, n. 49.

Cass. Civ. 13 luglio 2001, n. 9547, in Foro it., 2002, I, c. 466.

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M. Tiraboschi, Co.co.co vestite a nuovo, in La Riforma del diritto del lavoro, inserto de Il Sole 24

R. De Luca Tamajo – G. Santoro Passarelli, Il nuovo mercato del lavoro, Padova, 2007, op. cit.

C. L. Monticelli, Garanzie per i lavoratori e nuove forme di flessibilità aziendale.

M. Tiraboschi, Il lavoro a progetto: profili teorici e ricostruttivi, in Guida al Lavoro, inserto de il sole 24 ore, gennaio 2004.

Alessia Muratorio, Il lavoro a progetto: il punto della situazione a tre anni dalla sua introduzione, in Giurisprudenza – Lavoro a progetto, vol. II, 2006.

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