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GUERRA E LINGUAGGIO NEL XXI SECOLO

 

In tutti i manuali di tattica militare degli ultimi
cinquanta anni alla voce MEDIA, si possono trovare decine e decine di pagine su
come gestire il conflitto tramite la selezione delle notizie da dare alla
stampa, la censura delle fonti sul campo, la presentazione della guerra alla
pubblica opinione come giusta e portatrice di libertà ad un popolo oppresso.

 

Gli studi in questo settore cominciano già dagli anni 60, in
pieno svolgimento della guerra del Vietnam, ma si intensificano in maniera
esponenziale dalla prima guerra del Golfo in poi, con la
"spettacolarizzazione" del conflitto e la "iper-tecnologia"
impiegata dalle nuove armi usate in campo.

 

"Il linguaggio non è mai neutro", è questo
l”assioma condiviso da quasi tutti gli studiosi del linguaggio. In base al
fine da raggiungere, le parole assumono dei significati diversi da situazione a
situazione: è quello che gli studiosi chiamano il "frame
interpretativo". Esso nasce come concetto astratto in grado di esprimere e
descrivere la potenza del linguaggio nel mondo della globalizzazione e della
comunicazione di massa, quanto esso agisca sulla nostra percezione della realtà
e su come, da strumento di comunicazione, diventi strumento di fabbricazione
del consenso, strumento di giustificazione di azioni militari, strumento di
morte. Già Foucault aveva indicato, forse per primo, il "discorso"
come chiave interpretativa della realtà L”indagine sui linguaggi della guerra
nasce dalla constatazione che fin dalle sue origini, nell”epica omerica, la
cultura dell”Occidente ha parlato il linguaggio della guerra. Politica,
cultura, etica, estetica, pedagogia, arte: la guerra non soltanto tocca tutte
queste sfere, ma ha svolto spesso un ruolo addirittura di genesi rispetto a
esse, in virtù della sua intensa capacità di porsi come dimensione creatrice di
significati e valori condivisi proprio là dove la violenza sembra demolire ogni
formazione di senso.

 

La guerra in Iraq del 2003 è forse la prima guerra "di
nuova generazione" dove vi è la dimostrazione lampante di come incoerenza
e ingiustificabile leggerezza nelle motivazioni del conflitto passino in
secondo piano, e che questo "frame interpretativo" della pubblica
opinione risulta volutamente spostato verso una visione "soft" con
una consapevolezza "distante" dei conflitti. I media impongono ad una
società essenzialmente improntata alla cultura del benessere, un corto circuito
interpretativo tramite la selezione e la censura di determinate immagini o
notizie, capace di rimuovere di fatto l”evento traumatico,sulla base di un
ruolo dei media "funzionale" alla propria cultura.

 

La presentazione della guerra irachena alla pubblica
opinione americana contiene tutti i tratti tipici di ciò che gli studiosi
chiamano una "buona guerra da vendere":1)Vi è una catastrofe
umanitaria 2) Vi è una violazione dei diritti umani e delle leggi internazionali
3)La guerra sarà breve e "chirurgica" senza spargimenti di sangue.
Tutto questo rientra nello schema interpretativo di chi deve "presentare
come giusto" tutto ciò alla società civile, e , ciò è particolarmente
importante specialmente nella cultura occidentale che, dopo secoli di guerre
fratricide tende alla costruzione di una società più propensa alla pace, almeno
nel proprio territorio. Superata la prima fase di "presentazione", si
passa allo step successivo che consiste nell”eliminare dal lessico politico
qualsiasi allusione all”evento bellico. Si comincia cosi a parlare di guerra
utilizzando in maniera quasi nevrotica le parole "pace" e
"libertà", in un paradossale capovolgimento del significante e uno
stravolgimento del significato finale dove si tende a "demonizzare e
disumanizzare" il nemico, creando appunto una frattura insanabile tra
"Noi" e "Loro" e fra "Libertà" e
"Tirannia". Ma fino a quando questo potrà andare avanti? Fino a
quando le opinioni pubbliche occidentali continueranno a credere in un lessico
politico e in una classe dirigente che va alla guerra usando le parole
"pace e libertà"?

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