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IL CAMMINO DEI MIJIKENDA VOLGE AL TERMINE

Un altro guest post di Freddie Del Curatolo. La scorsa settimana ci ha raccontato la marcia dei Mijikenda… oggi l’arrivo di questo popolo nel loro luogo sacro. Una storia di lotta: lotta per conservare le proprie tradizioni, per evitare l’esproprio dei terreni sacri, per evitare le uccisioni dei vecchi. Una storia raccontata in presa diretta e che volentieri ospitiamo sul nostro sito.
La strada di Mariakani è un tappeto irregolare d’argilla che, al passaggio dei veicoli, deposita la sua polvere arancione su piante, pietre e baracche di legno. Anche la gente ne è ricoperta, impregnata. Statue in lento e perenne movimento, donne incinte con infanti legati in spalla come matrioske di terracotta, bimbi saltellanti e impassibili anziani, con la pelle più aspra del terreno e gli occhi di profondità infinita, cosa normale per chi da decenni si specchia ogni giorno in questo cielo.
Si sale e si scende attraverso le verdi colline d’Africa, come le chiamava Hemingway. Si incontrano autoarticolati sgangherati che trasportano legno o cemento, matatu carichi di pendolari del bisogno, qualche fuoristrada di chi è andato altrove a cercar fortuna e torna a respirare argilla e aria di famiglia. Ai lati del tappeto è un’altra famiglia, la verde casa della Natura. Baobab, palme e acacie si prendono i contorni dell’immenso cielo e lasciano la terra ai campi di mais e ai tetti di palme secche che annunciano le capanne di fango sprofondate nel rosso vivo e schiave della terra come sculture millenarie. Il manto rosso non ti molla, neanche quando ci si infila nella fitta boscaglia, si costeggiano scuole elementari dai prati curati e dagli intonaci che fanno pendant con le divise degli scolaretti. Le radure sono piazze di villaggi dai nomi probabili ma impronunciabili, abitate da motociclette-taxi in perenne attesa di clienti, chioschi di frutta e verdura, piccoli bazar che vendono sapone, sigarette sfuse e farina.
E’la carretera che porta a Kaloleni, dove tutto cominciò.
Il manipolo di eroici mijikenda sta risalendo la Mariakani dalla parte opposta. Arrivano da Mombasa, dopo sei giorni di marcia che ha fatto sanguinare i loro piedi ma ha rinsaldato i loro propositi. Sono stati ricevuti dal Prefetto di Mombasa, che ha donato anche dei soldi per un piatto di carne e un bicchiere di tè caldo. Hanno sfilato per le vie della città portuale con orgoglio e coraggio, incuranti dello slalom ad alta velocità delle berline giapponesi con i vetri oscurati e dei matatu che sono palline impazzite in un flipper mussulmano.
Noi arriviamo da Malindi, in macchina. Loro hanno scavalcato le colline di Mazeras per attraversare la zona in cui nacquero le nove tribù Mijikenda. La leggenda vuole che, dopo l’esodo da Shangwaya, la terra d’origine al confine con la Somalia, i Mijikenda trovassero pace nelle acque fredde di Kaloleni. Quattro fiumi delimitavano una fitta foresta che manteneva un microclima di fresco e umido e garantiva una gran quantità di verdure. Qui, secondo la mitologia orale Mijikenda, l’enorme vaso che si portavano dietro, carico di pozioni magiche e medicamenti (chiamato Ngiriama) si ruppe in nove cocci e ne diedero uno ad ogni capotribù. Ogni coccio conteneva un consiglio. “Vai di là”, “Torna indietro”, “Stai qui vicino”, “buona fortuna!”. Da queste invocazioni le tribù presero i loro nomi: Digo, Kambe, Ribe, Rabai, Duruma, Jibana, Chonyi, Kauma e appunto i Giriama, la “base” del vaso.
Salendo per un tratturo che costeggia la vallata del sisal e affronta improvvisi colli carichi di vegetazione, qui sono posizionati i villaggi che ancora oggi portano il nome delle tribù.
Noi entriamo a Kaloleni, villaggione di pietra viva e fango, di legno e di lamiere. Lo affrontiamo dall’alto. E’ un agglomerato di case e negozietti scoscesi, abbarbicati al monte come scalatori esausti. La via principale che scende a valle è un insieme di calce, terriccio e ghiaia cementificata che crea una serie di gradoni e piccole voragini. Gli ammortizzatori urlano, gli occhi non sanno dove indirizzare la loro meraviglia, l’estasi di tanta disordinata, sporca, incalzante, misera umanità.
Baya il cantautore mi chiama al cellulare.
“Abbiamo appena passato Ribe, siamo sulla strada vecchia che scende da Kaloleni. Ci venite incontro?”
La voglia di incontrare subito la processione dei nostri eroi è tanta, ma anche il vuoto nello stomaco si fa sentire. Forse è più insopportabile perché si contrappone all’anima che trabocca.
Ci troviamo nella piazza di Kaloleni.
Qui è tutto come deve essere, come l’iconografia del terzo mondo impone.
Andirivieni di camion puzzolenti, schiamazzi di venditori ambulanti, gimcane di motorette che sollevano polvere arancione, grossi autobus traboccanti di giovani, madri con neonati fasciati dai loro stessi vestiti, donne anziane come formiche, con carichi che pesano tre volte più delle loro ossa.
E’ un traffico scomposto ma alla moviola, in cui si trova sempre il tempo per muoversi, per interagire, per farsi avvicinare e scambiare due parole.
Con la stessa disordinata flemma parcheggiamo.
Maddalena, la fotografa, è felicemente disorientata. Il suo obbiettivo, ad ogni angolazione, avrebbe pronti almeno venti soggetti diversi.
Chiamo Baya.
“Mangiamo velocemente qualcosa e vi raggiungiamo. Dove siete?”
“Stiamo risalendo la collina, abbiamo passato il villaggio di Ribe, siamo quasi a Kambe”.
Ne so quanto prima, la “Kenya safari map” che sfoglio appena entrato nel ristorante, mi è parzialmente di conforto. Trovo Ribe, Kambe non esiste.
Il Sweet Joint Restaurant è una casupola di legno, ondulina e cemento. Da fuori ha l’aspetto di una chiesetta mormone dell’Oregon, dentro assomiglia alle migliaia di kebaberie, friggitorie e polentoteche della costa keniota. Gli arabi le hanno create e di arabo mantengono ognuna la stessa concezione delle vivande calde in vetrina, della griglia per gli spiedini all’ingresso, dei tavolini in formica e dei cessi inavvicinabili.
Divoriamo sima na cabaji, polenta e cavolo stufato al pomodoro. Ora anche le papille gustative sanno che siamo nell’entroterra del sud del Kenya. E ne godono.
Chiediamo informazioni a un gruppo di ragazzetti che non sanno nemmeno chi fosse la regina Mepoho e prendiamo la vecchia strada per Kambe.
Si scivola nuovamente sul tappeto color papaia.
Se il paradiso fosse arredato a questa maniera, non ci troverei niente di strano.
E’ foresta, sono improvvisi squarci di prateria, sono ordinatissime staccionate con scuole in muratura, piccole aziende agricole povere ma curate, dignitose baracche, campi di mais ordinati, siepi simmetriche. Da una curva d’argilla ci appare lo spettacolo della strada inghiottita da una ripida collina verde, su cui le piante si sono arrampicate con la stessa ingordigia di cielo e di panorama che abbiamo noi proseguendo per la strada.
Baya chiama, ma non lo sento, rapito da tanto splendore africano.
Richiama.
“Dove siete?”
Mi fermo davanti a una scuola elementare.
Decine di ragazzini corrono, saltano e inseguono una palla su un manto smeraldino che sembra mare croato. Mi ci tufferei volentieri. Dico il nome della scuola.
“Ci avete superato, dovete tornare indietro”
Sono qui per loro, per i nostri eroi. Ma rinuncio allo sterrato che conduce a Ribe, Rabai e in qualche altro paesaggio a noi sconosciuto, con il dispiacere provvisorio dell’artista costretto a lasciare un quadro a metà. Un giorno torneremo a dipingere con gli occhi queste miglia di tela d’argilla e foresta.
Gli ultimi Mijikenda sono raggruppati in circolo in una radura dietro la scuola di Kambe.
Poco distante sorge l’ufficio del chief, la massima autorità provinciale.
Sono passati da lui per ricordargli che i Kambe sono una delle nove tribù Mijikenda e che anche la loro cultura rischia di scomparire.
Eccoli. Volti stremati, barbe incolte, odori forti, piaghe tra le dita dei piedi.
Mi stringono la mano, mi abbracciano.
Mzee Mwarandu, il leader dei Madca, mi chiama al centro del cerchio di gente.
Mi presenta alla folla festante e al chief.
“Non ho ancora fatto niente. Ce la metterò tutta per aiutarvi”.
“Hai fatto molto. Tu, mzungu, sei qui” mi sussurra uno degli anziani.
Ora mi accorgo che dietro al cerchio dei camminatori, si è formato un crocicchio di simpatizzanti. Famigliole in abiti borghesi, qualcuno ha anche la camicia, bambini sottratti al pallone e al nascondino. Più defilati appaiono vecchi sorretti da bastoni d’ebano che indossano parei e timidezza, aprendosi in sorrisi sorpresi e sdentati non appena saluto in dialetto giriama.
“Sindadze…sinda…simanya wewe…nambola”
Come va? State bene? Io ottimamente!
E’ l’intercalare di rito ma in effetti mi sento proprio una favola. O “in” una favola.
A tre ore di macchina dalle oasi del turismo italiano, ad anni luce dalla tossica vita occidentale. Nel bel mezzo di un’Africa che non ha ancora perso del tutto la sua verità.
C’è anche un gruppo folkloristico kambe. I capobanda sono due personaggi assolutamente fuori dal comune: uno è bardato come un guerriero Tamil. Ha anche una sciabola, recuperata in chissà quale fondo di anticaglie di Mombasa. La barba folta, il turbante, una fascia in diagonale sul torace.
Il Tremal Naik di Kaloleni è accompagnato da un mganga, uno “stregone buono” locale, ricoperto di piume d’uccello e di bende colorate. Ha lo sguardo soddisfatto di chi da sempre attende il momento per potersi esibire in danze benaugurali e propiziatorie. Che non si prenda troppo sul serio è evidente, dai due caschi di banane legati ai polpacci e dall’imitazione delle All Star ai piedi. Forse ha inscenato questo carnevale per ingraziarsi gli adolescenti. Meglio cabarettista, che stregone, di questi tempi. Una delle tragedie che affliggono i Mijikenda è la caccia al mganga da parte delle nuove generazioni. Giovani bande di ragazzi dediti all’alcool e a droghe pesanti che adorano gli accattivanti idoli del mondo civilizzato ma non riescono a liberarsi dalle ancestrali paure degli anatemi e dei riti tribali. I loro nonni li ammoniscono: “Video ni hakili ya shetani…la televisione è la scatola cranica del diavolo. E la tecnologia il suo intestino. La vita in città è tutta una caccia a cose che tutti desiderano avere, ma di cui nessuno ha veramente bisogno. Se oltre al grano e alla verdura del nostro campo, alle galline e alle capre, avessimo anche un piccolo ospedale per tutto ciò che non si cura con le erbe e un po’ di cemento da mischiare col fango per non far sciogliere la capanna durante le piogge monsoniche, credo che non ci mancherebbe nulla”.
I giovani non credono ai loro vecchi, vanno in città e vivono di espedienti per potersi permettere un televisore. In pochi mandano soldi alle famiglie. Ricevono in cambio gli anatemi.
Con l’ultimo modello di Nokia in tasca e la motocicletta cinese tra le gambe, hanno deciso di eliminare il problema alla radice. Vanno in giro di notte e ammazzano di botte ogni presunto stregone.
Basta che abbia i capelli bianchi ed è uno di loro. Buon motivo per eliminarlo.
Da un po’ di tempo a questa parte, molti anziani dei villaggi hanno iniziato a tingersi.
Lottare per conservare le proprie tradizioni, per evitare l’esproprio dei terreni sacri, per evitare le uccisioni dei vecchi. Il compito degli ultimi Mijikenda è arduo. C’è bisogno di un appoggio delle istituzioni.
Il chief si accalora. Promette che si spenderà molto, nel prossimo consiglio provinciale a Kilifi.
alla sua gente: “siamo Kambe, facciamo parte anche noi dei Mijikenda. Abbiamo combattuto e siamo morti per salvare le nostre tradizioni. Ce ne siamo andati via da Shangwaya per non farci contaminare e sopraffare dalle tribù somale. Siamo nella nostra terra e non chiediamo nulla più che poterla lavorare, onorare, curare e raccoglierne i frutti.
Il manipolo si rimette in marcia, Tremal Naik e il mganga, con un’altra decina di kambe, si uniscono alla processione. Entrano in Kaloleni, si fermano ad erudire la platea davanti ad un bar arrampicato sulla roccia che reca l’insegna “Kosovo Kiosk”. Sorrido alla coincidenza, che non può che essere tale. Di etnie si parla, di difesa della propria cultura, anche se quella dei Mijikenda ha vocazione pacifica. Kaloleni gemellata con Pristina? Ho il volante in una mano e la telecamera nell’altra, non c’è tempo per salire le scale del bar e chiederlo all’omone dietro il banco.
I camminatori non sono mai abbastanza stanchi per rinunciare a una danza, a un salterello tribale. Sylvia la studiosa ha i piedi che sanguinano, ma accenna sorridendo due passi. Mwana il poeta aizza la folla con alcuni versi. Improvvisamente si siede sullo sgabello antico che porta sempre con sé, e finge di non riuscire più ad alzarsi. E’ una recita. Due ancelle in costume giriama fanno per tirarlo su. Mwana si riabbandona, come svenuto. Poi di colpo si solleva da solo, con un insospettabile colpo di reni. Recita un altro verso, uno slogan, a cui tutti rispondono in coro. Schiocca le dita tre volte e il piccolo popolo si rimette in marcia. Mancano poche centinaia di metri alla “terra promessa”, alla vallata di Mepoho.
Li precediamo.
Sotto un grande carrubo il gruppo delle massaie sta già cuocendo la polenta in un pentolone fumante, poggiato sulla carbonella di un fornello improvvisato con pietre di corallo. Ai saluti di rito e gli abbracci delle mama si aggiungono accenni di danze e canti. La capocuoca è una donna magra e ammantata di fierezza che in gioventù doveva essere molto bella. Ha l’incedere ieratico e ammiccante della cantante Erykah Badu.
Fa un inchino, mi prende la mano e mi invita a godere dell’afrore di mais bollito e unguenti per capelli che esala.
Il sole ha iniziato la sua parabola colorante verso la savana e cambia le tonalità al cielo. Il tramonto in Kenya dura il tempo di una danza, di un racconto dei nonni.
Arriva John, il segretario dell’associazione culturale Mijikenda, e mi mostra il luogo esatto in cui, secondo la leggenda, Mepoho predisse l’arrivo dell’uomo bianco in Kenya e poi sparì, inghiottita dalla stessa terra che l’aveva vista nascere ed essere abbandonata sul greto del fiume.
“Portata dall’acqua”, questo significa in giriama antico il suo nome.
La leggenda della prima grande figura femminile della mitologia Mijikenda parte da qui, dalla collina su cui sto poggiando i miei piedi incerti. Vedo la vallata, dove le nove tribù si divisero.
Alle mie spalle c’è il casino sostenibile di Kaloleni.
L’insostenibile è qui intorno. Invisibile di giorno, si materializza nel buio e odora di bruciato.
“Gente che si vuole appropriare di questi campi, per costruirvi o per coltivare e pascolare a proprio uso e consumo, ha provato già due volte ad incendiare la vallata con i suoi alberi e il terreno sacro – racconta John, con dolore – il terreno appartiene al Governo, sarebbe facile per loro darci la possibilità di recintarlo e i fondi per costruire un museo della storia Mijikenda”.
Siamo qui anche per questo e dobbiamo farcela. Prima che il diavolo o semplicemente un clan di giovani che ignorano la propria storia e le proprie origini, facciano un unico falò del tappeto arancione, della casa verde e di questa piccola, grande famiglia nera.

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