No Banner to display

Article Marketing

article marketing & press release

RISIKO INTERNAZIONALE ED ENERGIA NUCLEARE

Nel Risiko internazionale, è tornata drasticamente alla ribalta in queste settimane la questione della Pianificazione della produzione energetica. Dopo il disastro alla Centrale di Fukushima l’Unione Europea ha di fatto messo in stand by i singoli piani nazionali sul nucleare. Ma anche le notizie sugli scontri in Libia mettono l’accento sul futuro dell’approvvigionamento del gas da cui l’Italia è estremamente dipendente. Quali sono le prospettive che si aprono ora per quanto riguarda il futuro della nostra economia, della nostra vita quotidiana, del nostro tessuto produttivo? Lo abbiamo chiesto a Edoardo Cavalieri d’Oro, ricercatore del MIT di Boston e già direttore al ministero degli Interni italiano.
Dopo l’incidente di Fukushima e le nuove direttive europee, com’è il futuro del nucleare nel nostro Paese?
In questo momento la situazione è in fase di stallo. Di certo è il classico momento in cui non bisogna prendere decisioni: si aspetta e si attende che l’incidente sia concluso. Saranno poi le Authority competenti a fare le valutazioni del caso, a spiegare le cause dell’incidente, e a redigere le Guidelines di comportamento. A quel punto saranno poi i Governi a prendere le decisioni strategiche, ciascuno per il proprio Paese. Di sicuro quello che si evidenzia, in casi come questi è la mancanza, in tutto il mondo, e non solo in Italia, di un’Authority sovranazionale garante per la sicurezza. Oggi infatti a decidere per il proprio approvvigionamento energetico è ogni singolo Paese, con il risultato di avere politiche enormemente differenti a pochi chilometri di distanza. E nessuno scambio di esperienze. E’ giusto le differenze culturali e anche geofisiche a dettare le varie scelte di politica energetica. Ma in ambito di sicurezza industriale oltre che di sicurezza nucleare vi è l’esigenza di questa Authority che leghi le politiche comunitarie. Esempio è l’International Agency of Atomic Energy, l’Iaea, che attraverso il trattato di non proliferazione nucleare riduce il rischio di diffusione delle armi nucleari monitorando che gli Stati non trasformino programmi nazionali energetici nucleari in programmi militari. Un modello simile potrebbe mitigare il rischio di incidenti nucleari, sotto la forma di un’Agenzia super partes che definisca linee guida per la sicurezza e che soprattutto monitori costantemente lo stato degli impianti di tutto il mondo.

Come mai, anche prima del disastro di Fukushima, tanto parlare di nucleare? Non è in contraddizione con la tanto decantata “Economia Verde”?
Con Green Economy non si intende di sicuro un sistema volto alla riduzione dello sviluppo economico internazionale. Anzi, anche se il traguardo del 2050 è “zero carbon”, e cioè riduzione massima dell’utilizzo dei combustibili fossili, per poter cominciare a dismettere le superinquinanti centrali a carbone, ogni Paese avrebbe dovuto prepararsi a un mix di sistemi di approvvigionamento. Purtroppo oggi i sistemi che si basano su risorse rinnovabili non hanno ancora curve di apprendimento abbastanza veloci per potersi imporre su quelle tradizionali, e quindi le commissioni internazionali o i singoli governi (si pensi alle raccomandazioni del segretario dell’energia in USA S. Chu) hanno deciso che il mix deve comprendere anche l’energia nucleare. Di fatto il nucleare oggi, anche calcolando il trattamento delle scorie, produce un bassissimo inquinamento atmosferico a fronte di un giusto baseload di energia per impiego industriale. E per quanto riguarda i rischi, bisogna ricordare che il rischio che si calcola a livello decisionale e politico è la risultante tra probabilità di un evento e le conseguenze da esso generato. Quindi un evento come quello giapponese è considerato un grado di rischio ancora moderato, poiché pur avendo conseguenze devastanti è altamente improbabile che si ripresenti alle stesse condizioni.
Alla luce delle conseguenze degli ultimi incidenti, però, sicuramente questa frase fa sorridere.
Diciamo che le conseguenze dell’incidente di Fukushima non hanno niente a che vedere ad esempio con il recente disastro della BP nel golfo del Messico. Il problema della centrale giapponese è legato a tanti errori umani – legati prevalentemente alla logica del profitto – sommati al terremoto e alla tsunami. L’acqua riversata in oceano rappresenta un rischio calcolato: oggi il danno ambientale è limitato all’area circostante alle centrali, ma il coefficiente di diluizione di un oceano è pari a infinito. Mentre la radioattività si diluisce, non si può dire la stessa cosa invece per il petrolio, ad esempio quello fuoriuscito dalla piattaforma BP nel golfo del Messico: quello continuerà a fare danni per anni e anni, per la sua caratteristica fisica di un olio disperso in acqua.
Certo è che l’incidente di Fukushima non è comunque ancora concluso e le valutazioni di oggi potrebbero essere smentite dai fatti di domani.
Nonostante questo, il nucleare quindi resta la soluzione migliore?
Vi faccio un esempio. Adesso tutti parliamo di renderci indipendenti dai combustibili fossili. L’Unione Europea ha appena varato il provvedimento 2050, per la riduzione delle emissioni inquinanti. Per lo stesso anno si prevede un raddoppio della domanda di energia a livello globale. Anche Obama, pochi giorni fa, ha affermato di voler portare gli Stati Uniti ad avere 1 milione di veicoli elettrici entro i prossimi dieci anni. Questo andrà sicuramente a rivoluzionare la richiesta di energia elettrica. E le tecnologie delle rinnovabili non forniscono ancora un baseload sufficiente a gestire questa enorme richiesta.
Soltanto in Cina, nei prossimi anni, saranno ultimati 27 dei 62 impianti nucleari in costruzione su scala globale per un investimento complessivo di 150 billion dollars. Perché l’energia nucleare è considerata energia pulita, migliore comunque delle centrali a carbone con cui la nazione asiatica finora si è alimentata (80 per cento del mix energetico attuale), ma che l’ha anche resa uno dei territori più inquinati al mondo. Per rendersene conto basta guardare fuori dal finestrino del vostro aereo quando atterrate a Beijing e accorgersi che non è possibile vedere il suolo. La causa è proprio lo straordinario inquinamento atmosferico di una rivoluzione industriale senza pari e senza regole. Anche a voler fare marcia indietro proprio ora i numeri parlano chiaro: alla fine del 2010 la Cina ha raggiunto i consumi energetici degli USA, che assieme fanno un terzo dei consumi del pianeta e che l’America alimenta con 104 reattori nucleari contro gli appena 13 della Cina di oggi. L’idea oggi è quella di rimpiazzare quell’80 per cento proveniente da carbone con nucleare ma cercando, alla luce degli eventi recenti, massime garanzie per la sua sicurezza.Allora la soluzione potrebbe essere un’Agenzia Internazionale per l’Energia Nucleare, che infatti è invocata anche da Sarkozy, non per niente il presidente di una delle nazioni con più alto tasso di centrali al mondo. Una “sentinella” super partes che controlli tutte le centrali e che faccia da garante per tutte. Di fatto oggi come oggi, un impianto vecchio come quello di Fukushima – la prima unità ha poco più di quarant’anni – generava circa tre volte i revenues di un impianto di nuova generazione, intrinsecamente sicuro ma ancora in fase di ammortamento dell’investimento iniziale. Per questo, un’azienda privata come la Tepco lo teneva ancora in funzione, nonostante per ironia della sorte una delle unità più colpite dovesse essere chiusa definitivamente proprio a fine marzo. Le imprese private devono generare utili, altrimenti falliscono. Ma non possono farlo a spese della collettività. Un’Agenzia esterna invece potrebbe aggiungersi all’autorità governativa delle singole nazioni, per garantire che centrali di questo tipo vengano dismesse, come è stato fatto dall’Italia ad esempio per la Centrale di Garigliano negli anni Settanta. E proprio per problemi relativi alla sismica.
Quindi l’Italia si è dimostrata più saggia del Giappone?
Negli anni Ottanta alcuni studi effettuati sulla centrale nucleare di Garigliano – stessa tecnologia di quella di Fukushima – a seguito del terremoto dell’Irpinia, avevano dimostrato che i costi sociali ed economici di un eventuale problema di fuoriuscite o altro incidente sarebbero stati infinitamente più grandi delle risorse che la Centrale stessa avrebbe mai potuto generare in tutta la sua vita attiva. Per questo è stata spenta, con 5 anni di anticipo rispetto al Referendum del 1987. Questo dimostra che abbiamo saputo gestire la questione con la dovuta responsabilità. Perché anche l’incidente di Fukushima dimostra che se le tecnologie sono importanti, più di tutti è importante l’aspetto umano.
In che senso?
Nel caso giapponese infatti si sono sommati fattori estremamente delicati: prima di tutto è stato realizzato un cluster di reattori troppo vicini ed esposti a causa esterna come un terremoto li rende vulnerabili a quello che tecnicamente è definito come una causa di fallimento comune ovvero un evento che in questo caso correla i 6 reattori tra loro: in parole semplici, le conseguenze sono comunque moltiplicate per sei. Inoltre i generatori diesel che dovevano entrare in servizio come sistema di emergenza per la gestione dei reattori, e che son stati spazzati dalla tsunami, non sono stati posizionati su rialzi da terra come protezione dagli allagamenti, come invece si fa normalmente in paesi pure a rischio tsunami come l’India. Senza contare poi le responsabilità dell’azienda di gestione (la Tepco, ndr) che non ha avuto la sufficiente trasparenza, o forse la necessaria prontezza di riflessi, nel comunicare prontamente gli eventi alla popolazione e alla comunità internazionale cosi come stavano evolvendo.
L’incidente comunque non è nemmeno paragonabile a Chernobyl, per tanti motivi. Principale quello di aver avuto un incidente a reattore accesso..ovvero una escursione di potenza dovuta a una sovrabbondante miscela di errori progettuali, umani e di sistema socio-politico e che ha portato alla esplosione che ha poi generato la temibile nube radioattiva che ha sovrastato l’Europa e non solo per diversi mesi.
Cosa si può fare oggi in Italia?
Per rilanciarsi ora ci vuole coraggio e pazienza. Non esistono finora soluzioni che offrano un baseload sufficiente ad alimentare il tessuto economico che non abbiano ricadute sul tessuto sociale (per l’approvvigionamento) o sull’ambiente (per le emissioni). Sono rischi correlati che vanno calcolati e verificati uno a uno, per scegliere la soluzione più adeguata a generare il futuro del Paese. Oggi i paesi più forti sono quelli che hanno saputo gestire il mix: ovvero che anno saputo dosare tutti gli ingredienti richiesti: nucleare, rinnovabili, e naturalmente tradizionali, che piano piano negli anni perderanno importanza fino a essere dismesse.
Da questo punto di vista oggi siamo in netta difficoltà. Abbiamo scelto di non adeguarci al nucleare anni fa, e oggi siamo completamente dipendenti dai Paesi fornitori di gas. E oggi anche le relazioni con questi Paesi, come Libia e Russia si portano dietro il peso delle implicazioni geopolitiche a cui pure stiamo assistendo in questi giorni.
Questo per noi, che come i giapponesi non ci siamo dotati di un mix di approvvigionamento energetico (loro sbilanciati verso il nucleare e noi verso il gas), sta per diventare un grosso problema.La situazione è delicata. Se vogliamo dare una scossa all’economia nazionale la politica energetica è una questione da risolvere, perché fa da traino allo sviluppo. Di certo bisogna superare una barriera culturale molto forte, e fare come si fa ad esempio in Svezia, o negli Stati Uniti, dove la trasparenza nella gestione degli impianti (nucleari per primi, ma anche tradizionali) è talmente alta da consentire a qualsiasi cittadino di seguire in diretta le decisioni e le operazioni che quotidianamente vengono eseguite nelle Centrali: questo rende estremamente trasparente i processi. Grazie a questa condizione di massima trasparenza sul tema, ad esempio, in Svezia si è potuto optare per una gestione locale delle scorie.
A noi invece mancano ancora le basi del confronto pubblico: sono tutti spazi da costruire e da attivare. Nel tempo che abbiamo, prima che l’Unione Europea sblocchi l’allerta, e il nostro Governo riprenda l’argomento, sarebbe una buona cosa lavorare per migliorare la trasparenza su questi temi, e aumentare il grado di partecipazione nelle scelte comuni.

Leave A Comment

Your email address will not be published.

Article Marketing